mercoledì 20 febbraio 2019

Muere el portero inglés Gordon Banks a los 81 años, autor de ‘la parada del siglo’

Da El Pais 13/2/2019
Jon Rivas
Cada vez que la Inglaterra de Southgate jugaba un partido del Mundial de Rusia, Gordon Banks (Sheffield, 1937) se acercaba a la cómoda de su habitación, cogía una pequeña cajita roja, ya descolorida, la abría y acariciaba la medalla de oro que le había entregado la reina Isabel en el palco de Wembley, el 30 de julio de 1966, tras ganar la Copa del Mundo.
Era su ritual. Creía que mirar y acariciar esa medalla podía dar suerte a su selección. Era, además, uno de los pocos jugadores de aquella final que conservaban aquel recuerdo. Muchos la habían tenido que empeñar. Él mismo había vendido, 15 años atrás, el jersey amarillo que lució en la final contra Alemania, y subastó su medalla por 150.000 euros para ayudar a sus hijos a comprar una casa. Después la recuperó. Y es que cuando Gordon Banks pasó a ser futbolista profesional en el Leicester, cobraba solo 20 libras a la semana. No se hizo rico, y además tuvo que retirarse en 1972 después de sufrir un accidente de tráfico en el que perdió la visión del ojo derecho.
Cuando Banks ganó el Mundial, el fútbol solo era cosa de hombres, hasta en las celebraciones. Cuando llegaron al hotel de Londres con la copa Jules Rimet, les esperaban sus mujeres, tras seis semanas sin poder estar juntos. Banks le dijo a la suya que se vistiera para la cena de celebración, pero los dirigentes de la federación le avisaron de que aquella era solo una fiesta para hombres. Su esposa se quedó en la habitación. Fue su primer encontronazo con la FA; el último, el pasado junio, cuando ya enfermo del cáncer de riñón del que ha fallecido, se sintió marginado por la federación, que no invitó a los ganadores de la Copa del Mundo a la cita rusa.
Banks llegó al Leicester, su primer equipo profesional, procedente del Chesterfield. Había abandonado la escuela de Yorkshire a los 15 años, y pudo dejar de cavar zanjas y transportar ladrillos en una obra. Jugó ocho temporadas y su único título fue el Mundial, aunque salvó a su club del descenso en varias ocasiones. En 1967 fue traspasado al Stoke City, donde permaneció siete temporadas. Siguió siendo el portero de la selección inglesa, con el que jugó el Mundial de México y en el que protagonizó la que se considera la mejor parada en la historia de la Copa del Mundo, tras un centro de Jairzinho y el remate de Pelé, picado, que botó en el suelo, y al que voló Banks desde el primer palo para sacarlo a córner. En cuartos de final, sin embargo, jugó el suplente, Peter Bonetti. Según la historia oficial, se bebió una cerveza que le sentó mal. La oficiosa afirma que no fue solo una.
Con el Stoke ganó su único título en Inglaterra, la Copa de la Liga de 1972. Luego llegó el accidente de tráfico y su regreso a los campos de fútbol en Estados Unidos, con el Cleveland Stokers y después con el Fort Lauderdale Strikers. Ya estaba en el declive de su carrera, que se cerró con 73 partidos con Inglaterra.
Fue considerado el mejor portero del mundo por la FIFA durante seis años consecutivos, en tiempos en los que los guardametas jugaban sin guantes. A Banks, el mejor consejo para poder blocar los balones sin temor a perderlos se lo dio Bert Trautmann, el portero alemán del Manchester City, paracaidista de la Luftwaffe, que estuvo prisionero en un campo de concentración inglés tras ser capturado en el frente occidental. Debía masticar dos chicles y cuando estuvieran pegajosos, pegarlos en la mano y después lamer las palmas con la lengua. En la semifinal del Mundial de 1996, contra Portugal, se olvidaron de llevarle los chicles. El seleccionador, sir Alf Ramsey, envió a su ayudante a buscar un quiosco por Wembley Way para comprar un paquete. Banks los recibió en el túnel de salida, con los equipos ya formados.
Todas esas anécdotas las recordaba Gordon Banks en sus últimos años, en su paseo semanal con sus excompañeros del Stoke City, cada vez un grupo más reducido. De vez en cuando miraba su medalla de oro y recordaba aquel Mundial de 1966 que ganaron “porque no queríamos fallarnos los unos a los otros”.

Giorgio Sbaraini ricorda Nereo Rocco II parte

Giorgio Sbaraini ricorda Nereo Rocco

40 anni senza Nereo Rocco 20/2/1979

Da il Foglio 20/2/2019

L'orizzonte di Nereo Rocco (oltre Trieste)

Quaranta anni fa moriva l'allenatore che regalò al calcio italiano il catenaccio,
al Milan due scudetti, due Coppe dei Campioni e a tutti borbottii e un "vai mona",
perché così era più semplice capirsi







Davanti a quel mare, che poi è Golfo, aveva tutto il suo orizzonte: il faro con la lanterna da un lato con dietro la penisola di Muggia e poi la distesa dell'Istria, il vecchio porto dall'altro con dietro il Carso che scemava sino a farsi Prealpi, la diga davanti a interrompere quel blu verdastro dell'acqua. Non riusciva a star lontano da Trieste, "mi sòn de Cecco Beppe", ripeteva sempre. E così ci tornava appena riusciva. E ci riusciva sempre, di solito la domenica dopo la partita, al massimo il lunedì. Non riusciva a rimanerci però a Trieste, ché poi finiva sempre alla stessa maniera, con un "va in mona" borbottato a qualcuno e l'idea che quella città gli si stringesse attorno come una galera. Ci ritornava sempre comunque, ovunque fosse, sempre in macchina perché a Trieste si deve arrivare via terra, gustarsi la riviera, il suo panorama d'incanto, odorarne a finestrini abbassati il profumo. Ogni tanto ci portava gli amici. Una volta Gianni Rivera, "i me oci": Milano-Trieste a settanta all'ora fissi, in quarta. Quando il capitano del Milan provò a chiedergli, "ma non mette la quinta?", rispose indignato: "Ciò, mona, pensa ai fatti tuoi".
   
Per Nereo Rocco tutti erano mona. Ma non per cattiveria, per modo di dire, perché così era più semplice capirsi. E pure lui, ogni tanto, si dava del mona, ma sempre per semplicità. "Mi a Milàn son el comendatòr Nereo Rocco. A Trieste son quel mona de bechér". Almeno lì, a Trieste, Bechér, macellaio, lo è stato sino alla fine, sino al suo ultimo respiro, quello andato in scena quarant'anni fa, il 20 febbraio 1979.


Nereo Rocco (foto tratta da Wikipedia)

  
Bechér per discendenza: i suoi avevano una macelleria in centro. Bechér per praticità: suo nonno era un Roch (o Rock), viennese, cambiavalute finito nel porto dell'Impero per amore; suo padre Roch (o Rock) ci nacque, doveva diventare Rocchi per esigenze di italianizzazione fascista, divenne Rocco per errore di anagrafe. Tant'è, Rocco nessuno lo chiamò mai, solo Bechér, anche lui. Altrove era il Paròn, che in italiano suonerebbe padrone, ma che così perde tutto il non detto. Ed è un non detto di ruvidezza, asprezza, ma anche bonario rispetto e stima. Paròn lo diventò a Treviso, dove trovò una panchina su cui sedersi dopo essere stato cacciato dalla sua amata Triestina, costretto a lasciare per ragioni mai chiarite dopo un secondo e due ottavi posti in serie A. C'è chi dice per una questione di soldi, chi per ragioni politiche legate alla sua elezione in Consiglio comunale con la Democrazia cristiana, chi per aver detto a un pezzo grosso della dirigenza dell'Unione che commerciava tessuti: "Mona, lei la pensi a vénder straze" (lei pensi a vendere stracci). A Treviso rimase due anni e mezzo in serie B. Sulla panchina alabardata ci tornò subito dopo: il tempo di un altro battito di cuore, di altri litigi e di un nuovo esonero.
E così finì che al presidente del Padova rispose che "se mi date la casa, più un tanto al mese e mi lasciate tornare a Trieste tut­te le settimane senza creare problemi, posso anche venire a tentare di salvare la barca. Però non prometto niente; per il futuro vedremo". Rimase otto anni.
A Padova furono all'inizio fischi e prese in giro, risultati così e così, ma buoni per conquistare una salvezza insperata, pochi gol presi, pochi fatti, gioco non pervenuto. In trasferta i biancoscudati le prendevano, in casa in qualche modo vincevano (Rocco subentrò a Pietro Rava alla 24esima partita del campionato di serie B del 1953/1954). Fu promozione l'anno dopo, ma sempre fischi e tifosi insoddisfatti. "Dico la verità: quando mi urlavano catenacciaro, mi fi­schiavano, mi coprivano di in­sulti accompagnati dagli im­mancabili sputi, avevo crisi di sconforto. Ma sempre i miei giocatori mi erano vicini inco­raggiandomi a perseverare", disse a Gianni Brera.

Andò un po' meglio con la serie A, ma più per intervenuta abitudine che per reali cambiamenti di gusto. "Fosse stato in un'altra squadra Rocco avrebbe avuto meno detrattori. Ma faceva calcio supermoderno in provincia e nessuno glielo perdonò", scrisse sulla Gazzetta Gioànn Brera fu Carlo, all'epoca direttore. E furono nuovi insulti. Al giornalista e all'allenatore. Il calcio moderno era il catenaccio, ossia, per farla breve, l'introduzione della difesa con il libero. Rocco non era il solo a usarlo, era il solo a dichiararlo. E lui borbottava: "Solo noi femo el catenacio, i altri fa calcio prudente!".

Ricordava Gipo Viani che ogni volta che toccava andare all'Appiani, lo stadio del Padova, "veniva male a tutti noi allenatori", perché "se andava benissimo si usciva con un punto, se andava bene con l'onore, se andava male con le ossa rotte". All'Appiani perderanno tutte le grandi del campionato, dalla Juventus di Charles, Boniperti e Sivori in giù.

Il Paròn finì per convincere i tifosi che così, anche se non spettacolare come quello giocato in altri stadi, il suo calcio era giusto. Per convincere i critici doveva essere anche vincente. Anche per questo decise di andarsene nella Milano casciavìt, quella di fede rossonera. Al Milan lo volle Gipo Viani, lo mise sotto contratto con una stretta di mano e un fiume di parole metà in veneto e metà in triestino. Con Gipo le cose andarono come potevano andare tra due teste dure: alti e bassi. Vinse uno scudetto e una Coppa dei Campioni in una Milano divisa dal tifo per due squadre che sono l'opposto. Opposte nel cromatismo, opposte per storia, opposte per caratteristiche e modo di giocare. Dove anche i due allenatori sono agli antipodi. Da una parte l'elegante e raffinato Helenio Herrera, mago di un calcio un po' ostriche e champagne, severo e distaccato con tutti, calciatori in primis, salutista sino all'eccesso. Dall'altra il Paròn, schietto e sanguigno, ostico all'apparenza ma di rara sensibilità con i suoi uomini, uomo da osteria, vino e cotechino, un po' come il suo calcio. Il Milan vince subito e l'argentino si danna, si arrabbia, perde. Rocco se ne va da Milano dopo l'ennesimo litigio con Viani e Herrera vince campionati, tre, e Coppe Campioni, due. Il Paròn torna dopo quattro stagioni al Torino e i rossoneri ritornano a esultare: scudetto, Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale una dietro l'altra, poi tre Coppe Italia e due Coppe delle Coppe, così per gradire.

Nel 1973 lo chiama Federico Fellini, lo porta a cena a Bologna e davanti a un piatto di tortellini e un fiasco di Lambrusco gli propone di recitare in "Amarcord", di interpretare il padre di Titta. Lui dice che c'avrebbe pensato. E ci pensa davvero, è quasi tentato di accettare perché il regista lo aveva colpito, ma si mettono di mezzo i suoi giocatori che gli fanno il verso, che lo chiamano mister Bogart. Va a finire che alza la cornetta del telefono e fa: "No, grassie sior Fellini, so' mia mona".

Mona mai il Paròn.

giovedì 7 febbraio 2019

El milagro del Verona en el Scudetto de 1985 (Fiebre Maldini)



En los años ´80 cuando la liga italiana era la mejor del mundo, contra Platini, Zico, Maradona, Rummenigge, Falcao, la mayor sorpresa de siempre: el Hellas Verona campeón, bajo la guía de Bagnoli y la dirección de Emiliano Mascetti, con grandes juegadores que venian todos de otros equipos en teoría mejores, Fanna y Galderisi dalla Juve, Sacchetti y Di Gennaro dalla Fiore, il gran Briegel y Elkiajer. Como el milagro del Leicester pero 30 años antes.

Dalla Gazzetta dello Sport:

Ai nastri di partenza della stagione 84/85 le favorite per il titolo sono: il Napoli di Maradona, la Fiorentina di Sòcrates, InterJuventusRoma. Il campionato comincia e la sorpresa arriva dal Bentegodi di Verona, dove la squadra di Bagnoli batte il Napoli per 3-1 grazie alle reti di Briegel,  Galderisi  e  Di Gennaro. La domenica successiva si replica ad Ascoli, 1-3, l’Hellas batte anche l’Udinese 1-0. Fino ad arrivare alla quarta giornata, quando ad attendere gli uomini di Bagnoli c’è l’Inter, il Verona gioca bene e strappa un buon punto. Alla quinta arriva la Juventus, e il risultato non lascia spazio a repliche 2-0. il Verona resiste anche all’Olimpico contro la Roma, portando a casa uno 0-0 anche grazie alle parate di Garella.  Il Verona poi raccoglie due vittorie di fila con Fiorentina 2-1, e Cremonese 0-2, pareggia 0-0 con la Sampdoria, e si rifà la domenica successiva battendo 1-2 il Torino. La domenica successiva si va all’Olimpico,  dove una Lazio disperata capitola per 0-1 su un autorete di PodaviniA Como sono in 6500 a spingere il Verona ma il risultato resta sullo 0-0. Altro pareggio stavolta in casa contro l’Atalanta 1-1, il Verona coglie poi la terza x di fila a Napoli  0-0, pronto riscatto contro l’Ascoli 1-0, partita pazza poi a Udine dove l’Hellas sopra per 0-3 si fa raggiungere sul 3-3 per poi vincere 3-5 grazie alle reti di Elkjaer e Briegel, poi arriva l’Inter 1-1, la domenica successiva ancora pari, stavolta con la Juventus 1-1, l’Inter però spreca l’opportunità perché Altobelli sbaglia un rigore, l’Hellas resta primo, poi batte 1-0 la Roma, 1-2 la Fiorentina, e 3-0 la Cremonese portando a cinque i punti di vantaggio sulle inseguitrici. Poi coglie un buon punto contro la Sampdoria , per arrivare poi al Torino dove l’Hellas conosce la sconfitta 1-2 e campionato riaperto, il Verona si prende un punto a San Siro contro il Milan, batte la Lazio e poi pareggia con il Como, giocandosi tutto a Bergamo contro l’ Atalanta, il Verona grazie hai quattro punti di vantaggio sul Torino con un pareggio è campione d’Italia. Per un giorno Verona si trasferisce a Bergamo e il Verona non delude, 1-1. E' scudetto, la festa può cominciare. La partita con l’Avellino serve solo a fare da cornice alla festa gialloblù, 4-2 e festa, i ragazzi di Bagnoli hanno scritto la storia e il sogno è diventato realtà.   

Gianni Mura 12/5/2005
Quello scudetto, bellissimo e irripetibile, basterebbe una frase di Fanna a spiegarlo: “Con Bagnoli ci siamo sentiti come uccelli fuori dalla gabbia”. Per capire Bagnoli basterebbe un episodio. Nel marzo 1985, con il Verona in testa alla classifica fin dalla prima partita. L’Associazione allenatori organizzò un convegno sul tema “Evoluzione tattica del calcio mondiale”. C’erano tutti, da Trapattoni a Sonetti. Bagnoli, figuriamoci, in penultima fila. A un certo punto lo chiana il coordinatore, Marino Bartoletti, per illustrare il fenomeno-Verona. Bagnoli sale sul palco, si tocca il naso (fa sempre così quando è incerto sull’avvio) e dice: “Ecco, adesso mi tocca fare la figura dello stupido perché non c’è niente da spiegare. Dico solo una cosa: il Verona gioca un calcio tradizionale, che noi facciamo pressing lo leggo sui giornali. Io in campo non l’ho mai notato. Scusate, ma mi chiedete una ricetta che non ho”.
La ricetta in realtà era già nota: “El tersin fa el tersin, el median fa el median”. Ha un modo tutto suo di parlare, Bagnoli. Mescola il suo primo dialetto, milanese, con quello di Verona: dove ha giocato, ha messo su famiglia, ha allenato e vive. Cosa gli resta dello scudetto di trent’anni fa? “L’affetto della gente, in città, e dei miei giocatori. Ogni tanto ci si ritrova per una partita di beneficenza. Le feste, una ogni cinque anni. E ogni volta che vedo tutta ‘sta gente contenta mi dico che abbiamo fatto qualcosa di bello. Tutti insieme, voglio sia chiaro. I giocatori, il ds Mascetti, il presidente Guidotti, il patron Chiampan, la città che non ci ha messo pressione. E anche un po’ di fortuna: avevo una rosa di 17 giocatori per campionato, coppa Italia e coppa Uefa. Si infortunavano uno alla volta, potevo metterci una pezza”.
Una rosa di 17 giocatori. Ecco perché parliamo di uno scudetto irripetibile, ma anche di un materiale umano, non solo tecnico, di cui si sono perse le tracce. Sapete in base a quali informazioni Bagnoli chiedeva questo o quel giocatore al suo amico Ciccio Mascetti? “Sfogliavo l’almanacco Panini e cercavo centrocampisti da tre-quattro gol a stagione”. Era stato operaio, poi calciatore-operaio, poi allenatore-operaio. Per capire Bagnoli bisogna aver visto il suo quartiere, la Bovisa, quando era solo prati e fabbriche. Il padre lavorava alla Fargas. Lui giocava a pallone, scalzo. “Succede mica solo in Brasile, sa?”. Abitava al 104 di via Candiani, vicino alla stazione delle Ferrovie Nord, quelle dei pendolari. Lascia dopo la prima media e passa a una scuola di disegno tecnico. “Che era già lavorare. Nel doposcuola facevo cinture”. E poi tazze di water, a cottimo. E poi fasce elastiche in un’officina meccanica. “Lavori che insegnano cos’è la fatica, i veri sacrifici, altro che quelli dei calciatori”. Continua a giocare a pallone ed è bravo, tant’è che dall’Ausonia lo preleva il Milan, insieme all’amico Pippo Marchioro. Un giorno lo convocano in sede: Bagnoli, lei è aggregato alla prima squadra. “Ghe disi: podi no, ho il lavoro in fabbrica che s’incastra con gli orari della Primavera, ma la prima squadra è un’altra roba”. Me disen: quanto prende in fabbrica? “Ventottomila al mese”. E loro: facciamo 35mila, ma domani si licenzia.
Chi ha visto giocare Bagnoli lo paragona a Simeone. Lui a Verona si rivedeva un po’ in Bruni. Penso che da calciatore abbia avuto meno di quel che meritasse, ma non se ne è mai lamentato. Come centrocampista al Milan era chiuso da Liedholm e Schiaffino, come ala da Cucchiaroni. Ma è in quel periodo che matura una certezza e la porterà in panchina. “Se avevo l’8 giocavo meglio che se avevo il 7. Non è solo una questione di numeri, è anche una cosa di testa, un sentirsi al posto giusto. Certo che conta lo spogliatoio, ma devono pensarci i giocatori. Il succo del nostro lavoro è trovare per ognuno il posto giusto. Marangon ci ha detto che se ne voleva andare e così abbiamo preso Briegel. Poi Marangon rimane e ci ritroviamo con due terzini sinistri, uno spreco. Un giorno parlo con Briegel, mi dice che giocare a centrocampo è il suo sogno. Ben, ghe disi, allora alla prima di campionato te marchet el Maradona”. Verona-Napoli 3-1, duello vinto da Briegel, che segna pure un gol.
Il ritiro, sempre in Trentino, a Cavalese. Albergo decoroso, lussuoso no di certo. Alla fine del ritiro Bagnoli riuniva la squadra e diceva: i miei 11 sono questi, gli altri giocheranno in caso di incidenti o squalifiche, ma devono farsi trovar pronti. Questa era la sua filosofia: parlare chiaro, e mai dietro le spalle. Brera affettuosamente lo ribattezzò Schopenhauer. Bagnoli s’informò su Schopenhauer e disse: “Non sono pessimista, sono realista. Ci sono volte che puoi indirizzare le cose, altre volte vanno come vogliono loro”. La predilezione di Brera fece passare Bagnoli per italianista, dunque catenacciaro. In realtà, giocava con due marcatori fissi in difesa, a zona mista in mezzo al campo. Per inquadrare l’impresa del Verona, va detto che in campionato c’erano stranieri come Maradona, Platini, Rummenigge, Falcao, Zico, Passarella, Boniek, Brady, Junior, Socrates, Hateley, Cerezo, Diaz, Souness. E gli italiani che avevano vinto il mondiale nell’82 . In quell’anno il Verona con Bagnoli è promosso in A. L’Osvaldo raggiunge un accordo con Ardiles, ma il Tottenham offre di più e l’affare salta. Nei due campionati che precedono lo scudetto il Verona arriva due volte alla finale di Coppa Italia, perdendola, e si piazza quarta e sesta in campionato. Non è una squadretta ma non sembra uno squadrone. Lo diventerà. Un po’ alla volta Bagnoli aveva richiamato suoi ex giocatori (Volpati, Fontolan, Guidetti) e concesso fiducia e spazio a giocatori ritenuti non fondamentali da squadre più grosse: Garella (Lazio), Di Gennaro, Sacchetti e Bruni (Fiorentina), Fanna e Galderisi (Juve), Marangon (Napoli e Roma), Tricella (Inter), Ferroni (Samp). Anche Fontolan era passato per l’Inter, e Volpati per il Torino. Sbagliato definirli scarti, ma incompresi va bene. Agli europei Bagnoli e Mascetti avevano notato un danesone che giocava in Belgio (Lokeren) e un tedescone del Kaiserslautern. Erano le ciliegione sulla torta.
La torta c’era già. Ingredienti: un regista difensivo e uno a centrocampo (Tricella e Di Gennaro), un terzino sinistro di spinta (Marangon), un’ala destra veloce (Fanna), libera di andare anche a sinistra, un centrocampo di cursori dotati tatticamente, una punta potente e una leggera. Il dodicesimo, che poi giocò tutte e 30 le partite, doveva essere Volpati, chiamato l’intellettuale del gruppo perché studiava Medicina. Il magnifico Volpati, lo chiamava Brera, non solo perché era pavese come lui anche se nato per caso a Novara. Mi raccontò che a Cassolnovo, il suo paese, in estate tiravano le sedie fuori dai bar e le mettevano ai bordi della provinciale, i camion passando spandevano fresco. Bagnoli l’aveva trovato alla Solbiatese: “Giocavo di punta, mi ha arretrato a centrocampo”. In carriera ha fatto di tutto tranne che il portiere. Nel Verona, terzino destro o stopper o libero per tappare un buco, altrimenti a centrocampo in sintonia con Di Gennaro e le avanzate di Tricella, che era il primo contropiedista. Era una squadra solita, che in attacco s’apriva come le dita di una mano. C’era uno schema: rinvio di Garella per il petto o la testa di Briegel, deviazione su Di Gennaro e lancio per una delle tre punte. “Bagnoli mi ha insegnato il gioco senza palla”, disse Tricella, che in Nazionale tolse il posto a Baresi.
L’ultima notte del 1984 la passarono tutti insieme, staff tecnico e giocatori con mogli e fidanzate. Lo staff tecnico era composto da Bagnoli e dal suo vice, Toni Lonardi, ex portiere ed allenatore dei portieri. Nessun preparatore atletico. Al momento del brindisi si alzò Fanna, un friulano che parlava pochissimo e in campo era una specie di Robben e disse: “Ragazzi, questo è il nostro anno”. Fu l’unica stagione di sorteggio integrale per gli arbitri. Bagnoli, è un caso? “A me ‘sta storia dà fastidio, sembra che abbiamo vinto perché gli arbitri fischiavano diverso e ci hanno favoriti. Invece fischiavano allo stesso modo”. Segue ancora il calcio? “Vado a vedere il Verona, hanno dato una tessera a me e a mia moglie. In tv faccio fatica a ricordare i nomi dei tanti stranieri. Ma non vedo ‘sto gran spettacolo. Sette-otto passaggi per arrivare a centrocampo e poi palla indietro al portiere, che barba”. È stato esonerato due volte, alla prima e all’ultima panchina, Solbiatese e Inter. “Alla Solbiatese era una questione di dignità, di rispetto dei ruoli. Nell’intervallo il presidente voleva cambiare posizione a Tosetto. All’Inter l’ho vissuta come un’ingiustizia”. Pellegrini ha più volte detto di provare rimorso per quel licenziamento, che definisce il suo più grande errore da presidente. “Lo so, comunque è acqua passata. Ho scoperto com’è bello godersi la famiglia, e già allora i giocatori pretendevano tanto e davano poco”.
Ogni domenica, prima della partita, Bagnoli non faceva lezione, in spogliatoio. Si sedeva in un angolo e leggeva la Gazzetta. Sottinteso: non ho niente da spiegarvi, basta quel che ci siamo detti in settimana, ho fiducia in voi. Così s’è aperta la gabbia, non solo per Fanna. Ed era bello vederli giocare a memoria. Media-spettatori del campionato: 38.871. Disse Volpati il giorno dello scudetto: “Per capire veramente quello che abbiamo fatto ci vorrà del tempo”. Già, e trent’anni sembrano pochi.

La historia del portero nazi Bert Trautmann - Fiebre Maldini



da El País 20 JUL 2013

Paracaidista nazi condecorado seis décadas después con la Orden del Imperio Británico. Portero que ganó la FA Cup de 1956 con el Manchester City jugando el cuarto de hora final con una vértebra rota, arriesgando inconscientemente su vida. Bert Trautmann murió ayer a los 89 años en la localidad castellonense de La Llosa, donde residía desde hacía dos décadas, después de haber sufrido dos ataques al corazón este año.
El guardameta alemán jugó 545 partidos con el Manchester City entre 1949 y 1964, con el que ganó la FA Cup de 1956, temporada en la que fue nombrado mejor jugador. Tras retirarse, se embarcó en una modesta carrera de entrenador con el Stockpot, inglés, y el Preussen Münster, alemán.Trautmann nació en Bremen en 1923, cinco años después del final de la I Guerra Mundial. Cuando Hitler ascendió a la escena política apenas tenía 10 años y vivía de pedir en la calle y de los comedores comunitarios porque su padre no tenía trabajo. “Para mí, unirse a las juventudes hitlerianas era como una aventura porque a esa edad no tienes conciencia de ti mismo”, confesó en un documental emitido por Canal +. Tras estallar la II Guerra Mundial, en 1939, se alistó como voluntario. Lo quiso hacer como intérprete de morse, pero no pasó el examen y acabó siendo paracaidista en el frente ruso. “No te ofreces voluntario para matar gente”, aseguró, “lo haces para defender la tierra de tus padres. Cuando estás con el rifle o la ametralladora solo ves sombras en el horizonte y te defiendes”.En 1948, uno de sus rivales en el campamento le fichó para el St Helens Town, un equipo regional. En septiembre del año siguiente le contrató el Manchester City para sustituir a Frank Swift, que había pasado 16 años en el club. Más de 20.000 personas salieron a la calle en Manchester, una ciudad con una importante comunidad judía, y amenazaron con boicotear al City: un paracaidista de la Luftwaffe, la aviación que había asediado Reino Unido en 1940, defendería la portería de su equipo.Trautmann se sentía un hombre muy afortunado por haber sobrevivido, algo que solo hicieron 90 de los 1.000 soldados de su regimiento. Ascendió a sargento y obtuvo cinco medallas, incluida la Cruz de Hierro. Los aliados le capturaron por tercera vez —las otras dos logró huir— cinco semanas antes del fin de la guerra, en 1945. Fue transportado a un campamento entre Liverpool y Manchester. Allí, un general escocés formó un equipo que jugaba contra unos ingleses aficionados. Trautmann, liberado después de tres años, rechazó una oferta de repatriación para quedarse en Inglaterra. Según confesó, las mujeres —fue virgen hasta los 23 años— fueron una de las razones de su decisión.
“Siempre había algún maleducado que después de 15 años me seguía llamando nazi”, confesó. En la final de FA Cup de 1956 (3-1) ante el Birmingham dejó su huella eterna como deportista. A 17 minutos para el final, la rodilla de Peter Murphy, interior izquierda del Birmingham, le impactó en el cuello. Aunque se desmayó —en esa época no existían los cambios y acabó el partido sin poder girar la cabeza—, sus intervenciones salvaron el trofeo para el City. “Actué con el subconsciente. Era como jugar con niebla. No veía el balón, solo jugué”. Se rompió la segunda vertebra de la columna, y solo por haber quedado tapada por la tercera le salvó de la muerte.
En 2004 recibió en Berlín la Orden del Imperio Británico por mejorar las relaciones entre Reino Unido y Alemania en la posguerra. Bobby Charlton, leyenda del Manchester United, el eterno rival de los Citizens, le describió como “el mejor portero” al que se había enfrentado. No llegó a jugar con la República Federal de Alemania, campeona del mundo en 1954, porque solo seleccionaba jugadores formados en el país.

The Keeper tells the true story of footballer Bert Trautmann