lunedì 26 maggio 2014

Maggio 1957 la Fiorentina sconfitta a Madrid




Giovedí 30 maggio 1957, Madrid, campo di Chamartin, davanti a 124 mila “madrilistas madrileños” la Fiorentina campione d'Italia sfida nella finale della seconda edizione Coppa dei Campioni proprio il Real Madrid campione uscente. Questa la formazione viola schierata da Fulvio Bernardini: Sarti; Magnini, Cervato; Scaramucci, Orzan, Segato; Julinho, Gratton, Virgili, Montuori, Bizzarri.


Negli anni Cinquanta i Viola diventano Campioni d'Italia ed accumulano una serie impressionante di ottimi piazzamenti tra i quali spicca la superba stagione del 1955-56, nella quale la Fiorentina vince il suo primo scudetto. Il presidente Enrico Befani, imprenditore tessile pratese, aveva avuto il grande merito di completare la rosa, già molto competitiva, a disposizione del capacissimo tecnico Fulvio Bernardini, attraverso gli acquisti dell’astro brasiliano Júlio Botelho detto Julinho e di Miguel Angel Montuori, vera rivelazione del vittorioso torneo, che consacrò i Viola come campioni d’Italia a ben cinque giornate dalla fine. Al termine della stagione furono dodici i punti di vantaggio sulla seconda: il Milan. I protagonisti della magnifica stagione furono Sarti, Magnini, Cervato, Chiappella, Rosetta, Segato, Julinho, Gratton, Virgili - autore di ben ventuno reti - Montuori, Prini, Toros, Orzan, Bizzarri, Mazza, Bartoli, Carpanesi, Scaramucci.

La conquista del titolo non esaurì la forza di quella squadra che, a partire dal 1956-57, fu per quattro campionati consecutivi vice campione d'Italia. Nel campionato 1958-59 vengono segnate novantacinque reti, primato ancora intatto nella storia dei campionati di serie A a girone unico di diciotto squadre.

Tornando alla partita di Madrid la squadra avversaria, il fortissimo Real delle future 5 coppe dei campioni del presidente Santiago Bernabeu: Alonso, Torres, Lesmes, Muñoz, Marquitos, Zarraga, Kopa (balón de oro), Mateos, Di Stefano (dos veces balón de oro), Rial, Gento; Arrivato in finale battendo rapid Viena, Nizza e il Manchester Utd di Busby campione d'Inghilterra nel 1956 e nel 1957.

Gara aperta e incerta, la Fiorentina, in maglia viola e pantaloni neri, si appoggia sopratutto sulle indivudualitá de Jununho e Montuori e alla sua difesa per resistere agli attacchi arrembanti del primo wunderteam europeo, peró nel secondo tempo al '70 Kopa lancia Mateos atterrato fuori area da Magnini, un rigore inesistente fischiato dall'arbitro olandese Leopold Sylvain Horn.

Tira Di Stefano e batte Giuliano Sarti, poi al '75 un altro passaggio filtrante di Kopa per lo sprint fulminante di Paco Gento che brucia il marcatore s infila sarti in uscita.

L¡anno successivo, sempre in finale, il Milan di Viani con in campo Radice, Maldini, Grillo, Schiaffino e Liedholm perderá anche lui contro le furie bianche.
 
 


sabato 17 maggio 2014

Lev Yashin , il ragno nero




 
 
 
 
Lev Yashin (Jašin) nasce nel 1929 a Mosca da una famiglia di operai sovietici ed ha un’infanzia difficile, tanto da essere costretto ad iniziare a lavorare in fabbrica ad appena 12 anni. Yashin non inizia con il calcio bensì con l’hockey sul ghiaccio, riuscendo nel 1953 a vincere il campionato sovietico difendendo la porta della Dinamo Mosca. Dopo la vittoria nel campionato di hockey avviene però l’incredibile: quando sembrano perse le speranze per diventare calciatore, nel 1954 Khomič, il portiere titolare della squadra di calcio della Dinamo Mosca, si infortuna gravemente. Così la polisportiva moscovita ricerca proprio nella sua squadra di hockey il portiere mancante individuando nel venticinquenne Lev Yashin il sostituto ideale. Da questo momento in poi diventa l'estremo difensore titolare della Dinamo Mosca e lascerà quei colori solo nel 1971, dopo 326 partite (270 senza subire gol ) e 150 rigori parati

Con la maglia biancoblu della Dinamo Yashin vinse 5 titoli e 3 Coppe nazionali, ma è con la maglia dell'Urss che diede il meglio di sé, rendendola tra il 1956 e il 1966 una delle formazioni più temibili, sebbene non avesse assi in campo. Salvo il portiere.

Nel 1956, grazie alle sue parate, la Selezione sovietica vinse l’oro olimpico a Melbourne e Yashin subì due reti in 5 incontri (uno venne ripetuto). Due anni dopo i russi parteciparono al loro primo Mondiale, dove furono eliminati nei quarti dalla Svezia padrona di casa.

Ma è tra il 1960 ed il 1966 che nacque il mito del “Ragno nero”: nel 1960 l’Urss vinse la prima edizione degli Europei di calcio che si tennero in Francia, subendo solo due reti, di cui una nella finale contro la Jugoslavia, che già aveva battuto nella finale di Melbourne. Nel 1962 nuova eliminazione nei quarti del Mondiale ancora ad opera dei padroni di casa del Cile. Nell’occasione Yashin subì un infortunio che lo constrinse a giocare quella partita con una benda a un occhio in stile piratesco.

Il 1963 è l’anno della sua consacrazione: in Campionato incassò solo 6 reti e garantì la qualificazione agli Europei del ’64 in Spagna.

A inizio dicembre, meritatamente, gli fu assegnato il Pallone d’oro. Ottenne 73 punti, staccando di diciassette punti Gianni Rivera e di 22 Jimmy Greaves del Tottenham.

Da quel dicembre 1963 a oggi si sono susseguiti 36 vincitori (24 attaccanti, 9 centrocampisti, 3 difensori), e mai nessun altro numero 1. Due volte si classificarono secondi due portieri a noi ben noti, Dino Zoff (nel 1973, ma quell’anno stravinse Johan Crujiff) e Gianluigi Buffon (2006, lo vinse con ampio margine Fabio Cannavaro). Si presume insomma che il primato di Yashin possa durare ancora a lungo.

A corollario di una stagione strepitosa venne convocato per il “Resto del Mondo” nella partita celebrativa del centenario della Football Association. Sebbene in campo solo nel primo tempo, compì una serie di parate e anche a Wembley non mancarono gli applausi a dispetto del fatto che dopo il Mondiale cileno Yashin voleva appendere i guantoni al chiodo.

Nel 1964 arrivò ancora in finale all’Europeo contro la Spagna padrona di casa, e subì di nuovo la regola delle mura amiche: vinsero le “furie rosse”. Ai Mondiali inglesi del 1966 l’Unione Sovietica fu quarta, miglior piazzamento della sua storia. Non giocò da titolare il Mondiale messicano e l’anno successivo lasciò il calcio. La FIFA gli dedicò un’amichevole internazionale allo stadio di Mosca, dove oltre 100 mila persone lo applaudirono al termine della partita.

Post mortem gli furono dedicati titoli ed onorificenze che solo i grandi dello sport si sono meritati, tra cui l’intitolazione del premio dato al migliore portiere di un Campionato mondiale. È stato nominato anche miglior calciatore sovietico della storia, nonché miglior portiere del Novecento.
 

Mazzola, Yashin e il rigore del 10/11/1963


 
 
 
Data decisiva, domenica 10 noviembre 1963, all’Olimpico di Roma l’Italia debe ribaltare lo 0-2 subito nell’andata di Mosca (13 ottobre) negli ottavi di finale degli Europei di calcio dall’Unione Sovietica campione in carica. Questa la formazione che scende in campo: Sarti, Burgnich, Facchetti, Guarneri, Salvadore, Trapattoni, Domenghini, Bulgarelli, Mazzola, Rivera, Menichelli. In svantaggio per un gol di Gusarov al 32’, le speranze azzurre svaniscono definitivamente quando, a mezz’ora dalla fine, il giovane Sandro Mazzola (21 anni compiuti l’8 novembre) si fa parare un rigore dal leggendario portiere sovietico Lev Yashin: «Ero tranquillo quando Fabbri ha indicato che toccava a me. Ho agguantato la palla, ho voluto fintare, ma Yashin, che è un vero campione, non ha abboccato. Inizialmente volevo indirizzare la palla alla destra del portiere sovietico, poi mi sono accorto che un suo compagno gli aveva suggerito la direzione giusta, ho preferito cambiare, ma il colpo mi è riuscito solo in parte. Appena colpita la palla – troppo bassa rispetto alle mie abitudini – mi sono accorto che Yashin si raggomitolava trattenendola. Ho sbagliato tutto». La sfida finisce 1-1, pareggio segnato all’89’ da un altro giovanissimo, il ventenne Gianni Rivera.
Immaginate la figura di un portiere alto 1.89 ,vestito completamente di nero. Lev Yashin, il cui nome in russo vuol dire "Leone", è più conosciuto come "Il ragno nero", proprio per la sua divisa, buia come la notte.
E’ praticamente imbattibile (nella sua carriera parerà 150 rigori) è dotato di riflessi straordinari e le sue lunghe leve - che sembrano otto, come i ragni - confondono chi si appresta a tirare in porta. E’ un portiere moderno: guida la difesa dispensando consigli ai compagni fino a perdere la voce. In 326 incontri rimane imbattuto 211 volte. Numeri che gli valgono 5 campionati sovietici e tre Coppe di lega.
Ricorda ancora Mazzola: “Yashin era un gigante nero: lo guardai cercando di capire dove si sarebbe tuffato e solo tempo dopo mi resi conto che doveva avermi ipnotizzato. Quando presi la rincorsa vidi che si buttava a destra: potevo tirare dall’altra parte, non ci riuscii. Quel giorno il mio tiro andò dove voleva Yashin”.
 
 


 

venerdì 9 maggio 2014

Ancora Brera Su Helenio


 
 
 
Ha scritto un libro autobiografico intitolato "Io", che non era la capra nutrice di Giove Ottimo Massimo, bensì il pronome personale di Helenio Herrera, insigne caudillo podologico, cittadino francese nato in Argentina da Paco el Sevillano e Maria Gavilan sua moglie. Paco era falegname; sua moglie Maria aveva mentito sui propri anni per venir assunta a far da servetta presso una famiglia inglese a Gibilterra. E' da escludere che Helenito conservi dell'Argentina un ricordo men che sbiadito. I suoi lo generarono in un casone per emigranti disoccupati e qui lo tennero finchè Paco, amaramente sconfitto, trasferì i suoi penati sulle dune sabbiose di Casablanca (1919). Aveva tre anni Helenito quando gli Herrera lasciarono l'Argentina. Dirà tuttavia Helenio di sè d'aver giocato nel River Plate. Domanderò da ingenuo: perchè? Suvvia, seor: para el prestigio del fùtbol argentino. "Pero si no es verdad?" La risposta è una scrollatina di spalle, un risolino che stira il labbro superiore fino a scoprire gengive incarnite di roditore povero.

L'uomo sembra aver letto un manuale segreto sul modo di aver successo. Parla come un libro stampato, con un timbro di cialtronaggine che spaventa chiunque non abbia meritato le sue confidenze. Io ne divento biografo a sorpresa. Fatalmente siamo in polemica. E' venuto di Spagna via Parigi. Mi ha portato gli omaggi un po' ruffiani di père Gabriel Hanot, suo maestro di tecnica. Le père Gabriel è il solo cultore di pedate, in Francia, che abbia conseguito una laurea in Lettere. Non sa quasi niente di tattica. Crede al primo impatto che i russi abbiano creato una scuola di calcio e procura al suo allievo Herrera la qualifica di "entraineur dynamo". Le père aveva scambiato il podismo con la tecnica. Era vecchio e non coglieva più nulla dei tempi nuovi. Disse a Herrera di me rendre visite à Milan parce que j'ètais le seul etc etc.

Herrera era stato assunto all'Inter. Moratti aveva pregato Frossi di andar a vedere chi fosse e come facesse questo fenomeno al Barcellona. Frossi, onest'uomo, disse di lui che arieggiava Rocco. Lo prese per un muscolare schietto, un maresciallo di pedata con metodi reboanti. Se Rocco avesse mai applicato i metodi Herrera, nessun carisma l'avrebbe sostenuto. Herrera aveva la spocchia francese e la supponenza spagnola: parlava bene francese e spagnolo ma faceva in italiano gli strafalcioni che danno prestigio in un Paese di ciolle come il nostro.


Gli consigliai di adottare il catenaccio (anno 1960-61). A stento si trattenne dal ridermi in faccia. Corrugò la fronte bozzuta sopra occhietti un po' obliqui, da miope. Sentenziò che il WM inglese non consentiva alternative: era l'unico modulo-dio e lui, Helenio, era il suo profeta. Dopo quattro o cinque domeniche ebbe la ventura di affrontare Nereo Rocco a Padova e buscò di netto. Moratti digrignò quasi nel garantirmi che in settimana anche l'Inter avrebbe adottato il secondo terzino d'area. Fu Balleri, povera anima, ed Helenio ricordò di aver inventato il bèton nei lontani giorni in cui allenava il misterioso Puteaux (?). L'Inter contese il titolo alla Juventus e finalmente l'ottenne quando ebbe acquistato Luis Suarez, e Picchi fece il libero alle spalle di Guarneri. I vantoni francesi presero a dire che l'Inter s'imponeva secondo i principi dell'ècole franaise, rappresentata in Italia da Helenio Herrera. "Come lo consideri, Josè Mir?", domandai un giorno all'amico e collega catalano. "Helenio - quello disse - es un fanfarron". Ma intanto i risultati fioccavano. Dicevano di lui i colleghi argentini che usava battere di punta, tanto era brocco. Dalla panchina non vedeva nulla (non voleva si pensasse di lui che era miope). Se gli avversari variavano una marcatura, lui non se ne accorgeva punto. Rimproverato per questo, rispose a Moratti che i giocatori stentavano a capire una tattica preparata in diversi giorni: figuriamoci se potevano adeguarsi di acchito a una variante improvvisata! A parole era sempre razionale. Vittorio Pozzo lo detestava perchè al servizio dei milanesi. Lo chiamava Habla Habla e affettava di disprezzarlo per motivi di indole etica. Mentiva per la gola (come avrei capito in seguito). Helenio portò dalla Francia l'intervall training e tutto quanto riguardava il calcio podistico. Dal basket aveva preso i vizi scaramantici, ispirati a pratiche di non lontana origine tribale. "Quien ganarà?!", soleva urlare come se minacciasse. E gli allievi, mostrandosi convinti: "Nosotros!" Poi gli capitò fra i piedi un piccolo dannato magiaro a nome Czibor: al minaccioso grido "quien ganarà?!", Csibor si staccò dalla catena di mani e consigliò al mago (sorcier, brujo) di andarlo a chiedere nello spogliatoio degli ospiti. Czibor e Kocsis prendevano per il bavero Helenio, il cui tocco di palla era di epica rozzezza: e lui, se poteva escluderli, era lieto fino al dileggio.


Helenio era scappato in Francia dai cronici languori gastrici di Casablanca. Si era imbarcato su un veliero e lavava i piatti per aver da mangiare. A Parigi visse di espedienti e pedate, ma più di espedienti. Fu impiegato alla Saint Gobin e terzino della nazionale militare. Durante la guerra ebbe la tentazione di rivolgersi ai tedeschi e di farsi rimpatriare in Spagna. Gli andò meglio facendo l'infermiere e frequentando un corso serale di tecnica calcistica. Fu allora che le père Hanot lo prese a benvolere. Ebbe anche la guida della nazionale di Francia e assistette dalla panchina dei coqs alla loro clamorosa sconfitta interna con gli azzurri (1-3 nel 1948). Poi andò in Spagna a predicare il verbo nuovo (il n'est qu'un entraineur Dynamo, diceva di lui il buon Jean Eskenazi); da Barcellona approdò all'Inter, e in mezzo a tante cialtronate di subdola memoria "fassista" si andò poco a poco delineando una personalità di primo ordine. Non conosceva mezzi termini: o lo amavi o ti odiava. In Francia aveva fatto l'emigrante e aveva scontato l'inferiority complex del latino di seconda-terza serie convolando a incaute nozze con una spregiosa citoyenne di Montmartre.

Si vendicò inguaiandola di figli, poi cinicamente abbandonati con lei. In Spagna incontrò Maria e ne ebbe Helenito e Rocìo, che è il dolcissimo nome della rugiada. Dall'Italia alla Spagna mandò quattrini via Svizzera quando si accorse che i Paesi meno liberi sono anche i più ligi alle prerogative dei ricchi. Diventò milionario da noi e raddoppiò i suoi proventi lasciando Milano per Roma. Conobbe qui il suo ultimo amore, la soave Flora. Rispedì in patria Doa Maria e completò la triade dei matrimoni latini. Da Flora ebbe Helios, che significa sole. Acquistò una casa su un'isola veneziana e lavorò per giornali, radio e televisioni. Essendo ricco, non ambiva a guadagni alti e trovava sempre di fare. Mise gli occhiali, con gli anni, ed ebbe l'aria di servirsene bene. Lo considero da tempo un patriarca della pedata latina. Nel suo orgoglio di povero ho letto meglio che nella millantata biografia del tecnico. Paco el Sevillano tratta con i facchini mori che rifiutano di salvare la grassa sposa Maria Gavilan caduta in acqua al momento di passare dalla nave al traghetto. Paco ha pochi soldini e si svena per amor della moglie, miracolosamente evitata dai pescicani. Così debbono abitare nelle misere baracche sulle dune di Casablanca. Helenio cresce brado e si prova finanche a rubare cibo per la famiglia affamata. Paco predica l'onestà ma l'appetito è sordo ad ogni argomento che non contempli il mordere con denti allupati. Helenio lo ricorda con sfida. E voi fatevi avanti, sepolcri imbiancati. Paco el Sevillano lo accompagna a veder partite di calcio: bevono un gazzosino in due e nascondono il vetro per riaverne i dieci ghelli del deposito. Quando sparirà un vetro, Paco rimprovererà a Helenito di averlo nascosto male, tanghero di uno.

La Francia degli Anni Trenta è un paradiso appetto del quale le dune di Casablanca servono solo a destare incubi. Signora, senta se non è miracoloso questo incenso per disperdere i cattivi odori (e le incendia sull' uscio una pelle di coniglio). Il suo socio di pensione vive meglio: entra nei negozi di cappellaio, prova un cappello avvicinandosi allo specchio e alla porta, dalla quale si precipita per sparire. Lo spogliatoio di Milano si riempie di cartelli recanti slogan di pretta marca "fassista". Ne ridono tutti sorpresi e divertiti. Helenio scrolla le spalle. I giocatori sono amati schiavetti ai quali viene via via sottratto il cibo ignorante. Capita da me Risti Guarneri, un bel giorno, e divora un salame lungo un braccio. Scrivo che l'Inter è scoppiata in semifinale di Coppa Campioni perchè tutti i suoi hanno gli occhi vitrei dei ciclisti già cotti ai piedi del Tourmalet. Lui raddoppia il lavoro per dimostrare - me lo dice Picchi - che sono un ubriacone sclerotico. A Lisbona, i resti dell'Inter hanno un quarto d'ora di autonomia. Poi si coricano per terra, mortificati dal mediocre Celtic. Non importa - ora mi dico - formalizzarsi. Nel calcio nessuno ha sempre ragione; nessuno ha sempre torto. Helenio ha dato la sua impronta a un'epoca. Ha vinto molto e anche molto perduto ma, tutto sommato, la sua è la figura d'un vincente. E come tale può dire nel calcio quel che gli aggrada: nessuno dei suoi molti figli perderà il pane per un pronostico mal azzeccato.

di Gianni Brera

Addio Rocco addio


È morto Nereo Rocco e io non debbo nemmen pensare di poter piangere. È un diritto, ahimè, che non mi appartiene da tempo. I miei sentimenti non contano. Tanto più sarò suo amico, quanto meglio riuscirò a ricordarmi di lui senza frapporre l'amicizia fra me e il mio lavoro insolente. "Prepara il coccodrillo", mi era stato ordinato con presago cinismo. "Un'ostia!", avevo ruggito, a sorpresa, con la sua stessa voce. Io so che è già morto ma voi non lo dovete sapere: voi dovete aspettare, maledetti, che lo sappiano tutti. Allora mi metterò al carrello, e garantito che saprò battere i polpastrelli senza il minimo groppo in gola.

Così cerco di fare adesso che tutti lo sanno. E se volete capire meglio dirò che avevo già pianto e bestemmiato come voleva la nostra amicizia tutta particolare. Ho qui sott'occhio un cartoncino per auguri con su stampati i nomi di Nereo e Maria Rocco, Trieste, Via M. d'Angeli 28, telefono 791636. La data, Capodanno '78-'79: la calligrafia piccola e slegata di uno che è stato a scuola ma ci ha la mano troppo tozza per tenere la penna con un minimo di disinvoltura: Gioannin carissimo, grazie per i tuoi fraterni graditi auguri… contracambio con sincero affetto e brindo alle tue fortune purtroppo con l'acqua Fiuggi. Ti prego ricordami alla tua famiglia ancora grazie. Nereo .

Non so di grafologia e ancor meno di acqua Fiuggi. Ma questo suo biglietto era un testamento e io l'ho recepito con dolorosa rabbia. Improvvisamente mi s'è stretto qualcosa nelle viscere, me n'è venuto un disagio che era quasi paura. Allora ho capito che Nereo era morto, e che del suo stesso male potrei morire anch'io, e ho la sfacciata onestà di ammettere che non sapevo se fosse più il dolore o la paura a farmi piangere. "Dobbiamo andarlo a trovare", m'ha detto un amico. "Ma neanche!", ho subito reagito in un ringhio. Siamo stati anni senza vederci per rispetto della nostra stessa professione. E quando voleva il caso che ci incontrassimo, dopo il primo impulso al solito fraterno e divertito abbraccio, avvertivamo l'imbarazzo degli amici veri, che la vita ha ormai diviso, ma tradirsi non possono e non vogliono per nessun motivo al mondo.

Però, immancabilmente, ci si metteva a bere con la meditata calma si chi a bere ha imparato non solo per gioia ma anche per condanna ereditaria. E fatalmente ci danneggiavamo l'un con l'altro non potendo mentire. Io raccontavo pari pari tutto quanto a sua volta raccontava. Al diavolo gli interessi, le convenienze, gli obblighi: qui siamo insieme e qui beviamo sentendoci fratelli. Poi, chi vivrà vedrà.

Ma alla fine ci coglieva quasi il rimorso di tradirci e tradire. L'uno leggeva negli occhi dell'altro la sconvenienza, il rischio, il pentimento. Ciascuno rientrava berciando nel suo mondo. Brutto mona, co' se vedemo, finisse sempre mal! Ecco, dicevo: accetterei di andarlo a trovare se potessimo bere come sempre. E lui nel testamento m'ha confidato di essere alla fine, di poter solo brindare con l'acqua

Fiuggi. Se per disgrazia lo inducessi a trasgredire, la colpa sarebbe mia. Non voglio rimorsi di questo genere.

Ciao, Nereo, grazie di essermi stato amico, grazie di tante ore e giorni trascorsi insieme. Da oggi ti do per morto e ti piango senza mostrare a nessuno quel che sento. Purtroppo sei l'ennesimo amico che mi lascia. L'istinto bruto sarebbe di insultarti. Pensa cosa si direbbe di noi se lo facessimo: tu qui ridotto all'acqua minerale, io alle invettive del sempiterno goliardo invecchiato lavorando, e solo, ormai, con un fegato come il tuo (ma non è stato lui a tradirti, lo so bene: troppo facile ai filistei consolarsi di averci invidiati: eh, sfido, con quel che hanno bevuto!).

È che il mondo non sa distinguere fra chi beve "per scientiam" e chi per sete banale, o addirittura per vizio Noi eravamo fieri di non avere mai sete e spesso bevevamo per evitare il pericolo di averla. Che

fastidiosa noia, dover bere per sete, che banale destino! Les hommes qui ne boivent pas ne sont pas bons. Ciò, Nereo, senti 'sto vinellin. Aveva magari 14 gradi e Nereo fingeva di esserne atterrito. Poi parlavamo. E non c'era mai nube che ci potesse reggere, per cui tornavamo difilato in terra. E il senso pragmatico di Nereo non era mai affetto da cinismo. Ci sentivamo colmi di rimpianti asburgici, disarmati, o quasi, mit den Italienern. Noi tonti lombardi, voi gnocchi triestin. E un masochistico piacere di sentirci far fessi, però anche ringhiando puntuale disprezzo.

Ironia, sarcasmo, burbera tracotanza. Tasi ti, che ti sè tanto testa de mona che tuti i mesi te perdi sangue del naso! Battute pronte per ogni interlocutore. E il tipico pudore del figlio d'un borghese recessivo. Tanti puffi m'ha lassà me padre… Però te lo confessa senz'ombra di rancore. Scuote il capo, ne ride. Pensa ti che 'l voleva sonassi 'l piano. E ti sa il resultà? Che g'ho sonà il triangolo nella banda del Corpo d'Armata. Tutte le domeniche in piazza Unità a Trieste, naturalmente co' no gh'era partida. Interventi ripetuti (ton tin tin) nell'Arlesiana…

Lezioni di piano, sissignori, e ragioneria con tanta poca voja. Per la Triestina delira Saba poeta, ma dovrebbe mè pare? Ti te zoghi ben e mi te dago 'l premio. Così andavano le cose: che il premio al figliolo promettente zogador in Triestina lo dava 'l scior Rock, il figlio d'un viennese scappato a Trieste per amore, drio a un'acrobata o ballerina da circo, pensa ti, e spagnola per soramercà: la mia nona. Lo vedo la primissima volta all'Arena, in un allenamento della nazionale (facciamo uno dei primi anni trenta): sinistri al volo da mortificare un gigante come lui triestin, mi pare Blason. La trionfante salute psicofisica dei giuliani non ancora afflitti da angoscia del domani. Mai dimenticati quei potentissimi tiri a volo di pieno collo, e neanche la rabbia di Blason, che pure acchiappa e raccoglie la palla con una sola delle sue manone.

Del giocatore Nereo Rock più nessuna notizia. In nazionale trova Gioânnin Ferrari e recede come suo padre, già stato ricco venditor de carne. Emigra al Sud e sorride - sempre - ricordando Napoli. Poi, la routine presso a casa, la guerra, l'ennesima liberazione d'Italia e di Trieste. Consigliere comunale con i piedoni tosti per terra. Una seconda famiglia: due bei figlioli che studiano. Il primo gioca anche a calcio: "ma ti no ti sè 'bastanssa bravo e quindi ti te curi la bottega: nel calcio basto mi".

Allena con sbalorditivo genio pragmatico. Gli italianuzzi si abbandonano a becera imitazione degli inglesi e lui vuole il metodo mantenendo due terzini centrali. Un giorno ritornerà in Italia, questo suo modulo prudenziale, e si chiamerà Riegel, verrou, catenaccio. Pensa che giri: ma è pur sempre un viennese, Rappan, a sentire e vedere come lui. A pensarci, vi è quasi da piangere, tanto siamo fessi.

Ma Nereo non ha ancora voce. E quando l'Inter gli prende Blason, secondo terzino d'area, lui smania nel vederlo comicamente sacrificato sull'ala. Brutte figure da vergognarsi: la "grosse Berthe" messa a guardia d'un alberello di ciliegio. Poi, qualcuno capisce di rimandarlo al suo posto e l'Inter vince non uno ma due campionati!

Nereo è ancora lontano dalla ribalta principale: invece pontifica Viani, un astuto Porthos senza pudori sociali di sorta: uno che vince a poker, la notte, i soldi per il viaggio domenicale della squadra. Anche Viani capisce che il WM è un lusso proibito, anzi masochistico per noi, e arretra il centravanti sul centravanti avversario. Diviene dunque libero lo stopper in seconda battuta: libero - dico io - da incombenze di marcatura. Tutto il mondo adotta e chiama libero il secondo terzino d'area: in Italia, terra di grandi ingegni, proibito.

Sulla nostra stessa barca sono un po' tutti gli ex calciatori italiani passati alla tecnica (quelli che hanno studiato, non i muscolari, anche celebri ma fin troppo ignoranti). Dal castello di poppa, tonitruante, Nereo. Il suo pragmatismo sincero diventa taumaturgico. Rigenera vecchie rozze mal capite (come lo stesso Blason), lancia ragazzini veloci e coraggiosi, adatti al contropiede. Nasce allora, invocato, il calcio all'italiana e garantito che il suo più limpido interprete è Nereo. Senza falsa modestia, sono io il teorico. Lottiamo insieme a colpi di risultati e, nella metafora, di sessola e di remi. Le molte brutte figure della nazionale verrebbero subito evitate se i consoli osassero vestire il Padova di azzurro. Ma per ora il catenaccio è il diabbolo, pensa te: e nessuno capisce o vuol capire.

Finisce però che si commuovono anche gli Agnelli: sull'inclita panchina della Juventus, Nereo risparmierebbe alla nazionale dieci anni di umiliazioni cocenti. Niente. Il presidente del Padova teme il linciaggio se molla Rocco ai suoi stessi padroni (vende Fiat). Così Nereo deve attendere di approdare al Milan, dove comanda Viani: ed è un gran brutto vivere. Nereo non conosce astuzie dialettiche di sorta. È un tonto triestin: e quindi non riesce a mentire. Per mi, 'l calcio xe questo e che no me conti bale! Per fortuna, i risultati fioccano a dispetto d'una cricca conservatrice o conformista o vile: Viani è malato e, invidioso, gli tira contro. Nereo vorrebbe andarsene. Guai al mondo! Rimane e porta il Milan allo scudetto. C'è anche Rivera piccolo, el bambin d'oro (che per il momento, poco correndo e pensando sul gioco, non molto gli piace).

La lotta al WM è già vinta dall'anno del torneo olimpico di Roma. Viani in serpa a tacitare gli scribi, lui in panchina e nello spogliatoio, dove si destreggia come chi sa bene cosa pensa e cosa fa un pedatore di professione. Grosse parole, mai, atteggiamenti furbi, nemmeno. Dalla panchina torna sudato più dei giocatori: e con loro si spoglia e prende la doccia sentendone tutti I discorsi, dei quali puntualmente si serve per governare il timone. Sotto la doccia, il sudore acre dei poveri, le contumelie, le lodi, le reciproche accuse: e la partita interpretata a caldo. Poi con gli anziani, diciamo gli arimanni, si riflette e decide per il meglio.

Poco abile politico, è un grande in spogliatoio, non in sede. Ai presidenti non bacia né vellica niente.

Cambia città (e si pente): scopre nuovi Italienern, magari contagiati di vezzi franciosi: così rimpiange i lombardi e torna fra loro per vincere un altro campionato, un'altra Coppa Campioni. Rivera si è fatto

uomo e un po' ne viene plagiato. Rivera sta a Nereo come la callida volpe al toro manso. Ma bello è poterlo sentire figlio, alzare la voce a proteggerlo, lui toro , manso tutto de fora, estroverso, goliardo invecchiato, e torvo solo per gioco, l'altro tutto introverso, compito, abatin. "Xe Rivera la nostra Stalingrado", si lagna di me Nereo: e si capisce che non può seguirmi neppure quando ho ragione. Rivera è il solo dei suoi che pensi calcio in grande stile: al diavolo se al pensiero non s'accompagna sempre l'azione.

È il suo Prinz Eugen, talvolta addirittura il suo Allah: ed è per sincera amicizia che noi due cerchiamo di non danneggiarci a vicenda, di incontrarci il più raramente possibile: ma quando Franchino Carraro vorrebbe farla a pugni, in Messico, lui gli ingiunge di non sognarselo nemmeno: Gioani ze 'n amigo: e onesto, salo?, onesto. Pensa che notizia, un bel round di pugilato con il futuro presidente del CONI!

Ma per fortuna Nereo ha qualche anno più di noi e di Rivera, al quale dice: se ti te torni in Italia, te
rovini. Gli altri anni - gli ultimi - sono di gloria, di fama così scontata da fare, al massimo, invidia. Il vecchio goliardo lotta con acidi urici, trigliceridi e colesterolo. Forse anche il morbus domini lo

importuna: e la gotta.

La natia Trieste è diventata per lui un curioso esilio. L'azienda paterna rifiorisce per Bruno;

L'altro figliolo è laureato e lavora in farmacia. La pacata ma energica sciora Maria lo assiste e perfino diverte con premure sempre meno fastidiose. In puro triestin mi ripete una saggia massima brianzola: "Ten bona la tô vegia / perchè al moment giust / la te laverà i mudant anca in de l'acqua fregia". Così lo penso, povero Nereo, convinto di morire, perduto ormai per il calcio, che era la sua vita, il suo lavoro onesto, però non solo, però circondato dai suoi, che gli volevano bene.

Caro vecchio Nereo, se avessi pianto non avrei finito a tempo questo lavoro che l'amicizia, soltanto l'amicizia non mi rende gravoso né ingrato. Il magone mi è venuto quando ho letto la tua ultima lettera. Non è da noi piangere. La tua vita è stata buona. Al tuo ricordo, amico, brinderò come tante volte abbiamo fatto insieme. Addio Nereo, ti sia lieve la terra.

 
di Gianni Brera (1979)