lunedì 24 marzo 2014

Quel giorno da Malta, Mura scrisse



Quel giorno da Malta, Mura scrisse
"Ciao Gianni, sei morto con i tuoi amici"

Ecco il pezzo scritto su Repubblica da Gianni Mura, il giorno della morte di Gianni Brera. Uscì sull'edizione del 20 dicembre 1992.TI SIA lieve la terra, Giovanni. Comincio come avresti concluso tu se fossi morto io, come hai concluso tante volte i coccodrilli.

Sono pezzi che toccano ai più vecchi, o a quelli che hanno più memoria, e del calcio di Repubblica il più vecchio adesso sono io. E comincio a capire il peso che hanno i coccodrilli, e mi viene in mente di quando tu mi hai raccontato della morte di Consolini, il discobolo. L'avevi saputo che stavi in America, e ti eri messo a piangere e a imprecare, da solo, nel parcheggio di un motel di Dallas, o forse era Chicago.

Adesso qui a Malta è quasi uguale, solo che c'è il mare oltre il parcheggio, e molto vento, Giovanni. Ti chiamo così perché l'ultima volta che ci siamo visti, la settimana scorsa, hai scherzato sui nostri nomi, sul Gianni piccolo-borghese imposto da zie, sorelle o madri. Mi hai anche regalato due pacchetti di Super col filtro, la solita
generosità, in un momento di astinenza forzata. Qui ti piangono e ti rimpiangono, li conosci tutti e tutti ti conoscevano. E molti dicono la cosa più ovvia, che se venivi qui non eri su quella strada tra Codogno e Casalpusterlengo.

Dove finisce il territorio dei gallo-liguri e inizia quello dei celti, Giovanni? Qui sappiamo così poco e ognuno si taglia coi suoi ricordi. Io ne ho tanti. Per cominciare, ti devo la scelta del lavoro, se tu non
avessi scritto come scrivevi, sul "Giorno", oggi sarei un insegnante di lettere o di francese, in qualche scuola lombarda. E scrivevi come vivevi, da persona piena di umori e di amori, con una cultura larga e profonda che andava dalla pesca degli storioni all'uso del verso alessandrino. E le invenzioni, Giovanni, i neologismi. Ne hai inventate di parole.

Ti avevo chiesto un appuntamento nel ' 65, in "Gazzetta" ero il ragazzo di bottega, per capire qualcosa di questo mestiere, degli strumenti da usare. E venendo da te sentivo di non tradire Gualtiero Zanetti, il mio direttore: eravate amici, sulla stessa linea ideologica, vi univa Nereo Rocco. "Venga sul lago verso le 11, poi parliamo". Mi aveva colpito l'uso del lei. E, poi, il fatto che appena arrivato tu mi chiedesti di aiutarti a raccogliere le uova, facendo attenzione a un'oca feroce ribattezzata De Gaulle.

Questo Brera inventa anche sulle oche, pensavo, e in verità l'oca somigliava molto al generale, e intanto stavo attento a non scivolare sul pesticciato del pollaio. E per un pomeriggio ero stato ad ascoltarti spiegare tutto, anche cose non richieste, anche la tua nascita settembrina col fatto che nella Bassa pavese le donne non potevano uscire a lavarsi, d' inverno, per il freddo, post coitum. E la laurea in scienze politiche (figlio di un sarto povero, ma tutti i figli mandati all'università, perché il pezzo di carta avrebbe dato pezzi di pane), e i paracadutisti, e la Resistenza senza sparare un colpo, e il pallone preso a calci con la maglia dei Boys a Milano, con Cina Bonizzoni allenatore.

Lo sport. Certo sapevo che eri stato direttore della "Gazzetta", a trent'anni, e te ne eri andato sbattendo la porta per una bega amministrativa. Non sapevo, me lo avresti detto tu, che lo sport aveva due tipi di cantori: quelli
che definivi i professori, gli epigoni del Vate Gabriele, digiuni di tecnica ma ben provvisti di parole alate, e gli scribi, i cronisti, quelli che seguivano lo sport da vicino, con qualche nozione ma senza lingua, senza le parole adeguate. E tu con coscienza e scrupolo artigianale (ma io non dimentico tutti i libri che hai in casa) avevi inventato una lingua viva, piena di venature, di rimandi, come uno che aveva letto Runyon ma anche Folengo.

Eri nato con l'atletica e il ciclismo, sapevi raccontare gli uomini e le strade. E' sempre più dura, Giovanni, con questo pezzo spezzato dalle telefonate e dai colleghi che mi chiedono un ricordo di te. Uno della Rai mi ha presentato come tuo erede e so che ne era convinto, ma io non voglio. Mi è venuto in mente e mi sono commosso, ma con un microfono sotto il naso non si può piangere, di quando tu hai detto a tua moglie Rina, guardandomi: ma hai visto il profilo del naso di Giovannino, la barba? Potrebbe essere nostro figlio, sputato. Sì, aveva detto la Rina, che ha occhi di un azzurro incredibile.

E adesso io vorrei essere vicino a lei, non qui. Mentre sta suonando una banda. Io non sarò il tuo erede, Giovanni. Siamo onesti, come te non c'è stato nessuno e non ci sarà più nessuno. Mica solo per lo sport. Se c'è un libro di gastronomia da salvare, è "La pacciada", che hai scritto tu con Luigi Veronelli. Che adesso starà bevendo in memoria tua. Se si vuol capire qualcosa di ciclismo, degli anni eroici del ciclismo, bisogna leggere "Addio bicicletta", l'hai scritto tu un sacco di anni fa. E pochi letterati da Strega e da Campiello avrebbero descritto il paese di Coppi come hai fatto tu. Io non sarò il tuo erede, ma continuerò a portarti in giro, Giovanni. Lo facevo già prima, lo farò ancora. Lo facevamo in tanti. Anche venerdì sera, a tavola con gli altri di Repubblica, ci siamo chiesti se quel Cabernet Sauvignon maltese a te sarebbe piaciuto. No, ho deciso io, non ti sarebbe piaciuto.

E' strano, ma negli ultimi tempi ci si vedeva poco, proprio adesso che lavoravamo nello stesso giornale. Ma era normale, se tu stavi a San Siro io andavo a Torino, se tu eri a Roma io a Parma, se io ero a Malta, tu fra Codogno e Casalpusterlengo. E adesso che sta partendo il pullman per lo stadio, in un sole assurdo. Non sappiamo nemmeno se c'era nebbia lì, a quell'ora, ma non importa. Ricordo di quanto avessi paura, in macchina, tu, e come strillavi appena si passavano i 120 in autostrada. Conosco anche quelli che sono morti con te, ci abbiamo mangiato assieme e giocato a carte, da Giuliano. Sei morto come avresti sperato, ammesso che si possa sperare di morire, il come se non il quando. Tu che giravi pieno di pilloline contro tutto, nel tuo leggendario borsello di pelle d'ippopotamo, hai evitato l'orrida vecchiezza, dicevi tu, l'infermità, il bussare insistente della signora dai denti verdi.

Sei morto come auguravi ai tuoi eroi sportivi, assunti in cielo su un carro di fuoco. Non sei morto di cuore né di fegato né di polmone, Giovanni, tu che fumavi cento sigarette al giorno e non parliamo di quello che hai bevuto, oppure parliamone, e parliamo del culo che ti sei fatto sgobbando fra le stanghe della Olivetti (il computer mai, avevi ragione tu, non fa rumore, ti cambia le parole già in testa) più di cinquant' anni. Sei morto con gli amici, come avevi vissuto. Non è il maestro di giornalismo che ci manca, né il suscitatore di polemiche sempre affrontate a testa alta. Ci manca il compagno di strada e d'avventure, anche avventure intorno a un tavolo che era la rampa di lancio per sentirti raccontare delle storie, poteva essere Alarico o Girardengo, eri tu che le raccontavi, e chi ti poteva contestare la data della dieta di Worms? O la vera ricetta della zuppa alla pavese? Solo una volta ti ho beccato, su un vino di Giacomo Bologna, morto anche lui, fegato. Anche lui ricco d'avventure e di umanità. Passa il tempo e si fa la conta e i debiti coi morti sono i più difficili da pagare. Ne ho tanti, da oggi uno in più. Per esempio, se hai bisogno chiamami, non te lo sentirò più dire. Se mi ammalo farò come il cinghiale solengo, che si apparta e non vuole vedere più nessuno, dicevi. Ti è andata bene, è forse l'unica consolazione,
amico, maestro, pezzo di cuore che se ne va. Sei morto nella Bassa, vicino a dove sei nato. Non avrei mai voluto scriverne.

Dicevi che non si deve scrivere barocco, anche se un po' è inevitabile, nello sport: il muscolo si gonfia come il lessico. Come il cuore, Giovanni, come il cuore. Anche la morte può aprire autostrade di retorica. Ma questo oggi ti devo: la coscienza che non si può essere avari, nella vita e nel mestiere, che bisogna spendersi, meglio dieci righe in più che dieci in meno, semmai qualcuno le taglierà. Meglio un'ora in più con gli amici che un'ora in meno. Meglio il fiotto che la goccia. Meglio il rosso che il bianco. Meglio la sincerità, anche quando può far male, che la reticenza o la bugia. E adesso basta, tiremm innanz, come ha detto uno della tua sponda. Quel po' di strada che c'è ancora da fare la faremo insieme, tu non ti stancherai, neanche al Tour. E io se sentirò un peso al petto o un bruciore agli occhi darò la colpa alle sigarette, al vino, ai chilometri. Sto dettando dallo stadio
Tà Qali, gioanbrerafucarlo, siamo già partiti.

Helenio Herrera visto da Brera




L'ALCHIMISTA SENZA PATRIA
(Repubblica  -  23 luglio 1989)
di Gianni Brera


Il giornale mi ha fatto avere per tempo un elenco di personaggi dei quali vorrebbe riassunta la biografia. Vi figurano grandi alteti e grandi tecnici, fra i quali Helenio Herrera. Pensando a lui ho deciso di intitolare queste biografie Memorie d' oltre stadio, che non c' entrano con le bistecche e neppure con Chateaubriand. Scriverò di quei personaggi come consente l'esiguo spazio che mi è stato concesso, però con amore (o con odio, che è lo stesso). La prima scelta è caduta su Helenio Herrera, non perché mi sia particolarmente caro o discaro, ma perché mi sembra un personaggio la cui sorte è da considerarsi emblematica nella storia dello sport latino e italiano in particolare.

Ho soprannominato H. H. Accaccone e non Habla Habla, come fece Vittorio Pozzo, per distinguerlo da Heriberto Herrera, paraguagio, da me soprannominato Accacchino. Il futuro Accaccone è nato in un ospizio per immigrati nella città di Baires, capitale dell'Argentina. Chi dice nell'anno 1910, chi nel 1916, come egli medesimo sostiene. Suo padre, falegname, era chiamato Paco el Sevillano; sua madre si chiamava Maria Gavilan, così povera a sua volta che ancora bambina falsificò la data di nascita per poter andar a servire in casa di un inglese a Gibilterra. Paco e Maria non ebbero fortuna in Argentina e decisero di andare in Marocco a (prima) guerra mondiale finita. Helenito aveva tre anni. Il porto di Casablanca non offriva fondali sufficienti per l'attracco di navi transatlantiche. I mori andavano remando sottobordo e imbarcavano merci e passeggeri. Nel trasbordo, la grassa Maria Gavilan cadde in acqua e Paco el Sevillano implorò invano che gliela ripescassero. I mori, con molto cinismo, dissero che le acque erano infestate di pescicani e per rischiare tanto chiesero una somma che era pari a tutti i risparmi dell'infelice ma fedele Paco. Maria Gavilan venne portata a salvamento ma, non disponendo di altri quattrini, gli Herrera vennero costretti ad abitare le baracche dei profughi sulle dune prospicienti l'oceano.

Così crebbe Helenito e poiché aveva orgoglio ne fece una sorta di epos desperado. Quando commetteva una bricconata, subito la giustificava ricordando quei giorni di avvilente miseria: né trascurava di raccontare che il suo onestissimo padre, da buon cattolico spagnolo, gli aveva sì raccomandato di non mortificarsi a rubare, però quando fu il caso non stette a sottilizzare sul cibo che suo figlio aveva rubato per sfamare sé ed i famigliari. Sono stato a suo tempo biografo di Accaccone. Editò il mio libro Longanesi nella collana Chi è, alla quale so di aver contribuito per merito precipuo del personaggio. Me ne fu grato Giovanni Grazzini, che dirigeva la collana, non so Mario Monti, che allora possedeva e dirigeva la casa editrice.

Il mio futuro Accaccone fuggì dal Marocco a diciott' anni, imbarcandosi su un veliero come sguattero. Da Bordeaux pervenne a Parigi e incominciò a raccontar balle sulle proprie virtù di calciatore. Era un robusto brocco, però volitivo. Viveva vendendo lucidi per i banchi da bar e castagnole da accendere in casa per eliminare la puzza. Non ebbe mai il coraggio di rubare come invece faceva un suo compagno di pensione. Andava sulle ballere di Pigalle e qui trovò una moglie che lo snobbava come usano le francesi con tutti i tapini considerati di razza inferiore. A questa francese, una sarta, fece fare cinque figli con cinica protervia. Intantoscoppiò la guerra. Helenio venne convocato per la nazionale militare e poi esonerato dal servizio per essere dipendente dalla Saint Gobin. Durante l'occupazione frequentò un corso serale per infermieri e poi un altro corso da allenatore di calcio, che lo vide primo agli esami finali. Gran Maestro del corso era il vecchio Gabriel Hanot, che era laureato in lettere e scriveva di calcio sull'Auto (prima che nascesse l'Equipe). Hanot era il gran maestro della pedata francese ed Helenio venne nominato C. T. della nazionale. Le cronache lo ricordano sconfitto senza aver capito perché (!) dagli azzurri 1948, e come tutti i coqs fieramente deciso a chiedere una rivincita che ristabilisse le giuste distanze entre les francais ed le droles macaronis. Era semplicemente avvenuto che, seguendo l'indole e il giovanil furore, i coqs si lanciassero all'arrembaggio: non desideravano altro gli azzurri, che li infilarono tre volte (a una). Helenio si ritrovò a spasso e decise di offrirsi alla Spagna, tanto arretrata da fargli pena. Gli spagnoli non poterono assumerlo subito e lo dirottarono in Portogallo, di dove rientrò per andare a Siviglia (aqui los muchachos taconeaban: ballavano il flamenco) e infine andò al Barcellona, dove impose il suo genio, quasi tutto fondato sull'intervall training dell'atletica, sulle droghe anche morali e sul ciarlatanesimo assunto in Francia, paese tanto più progredito della Spagna e di noi (come vedremo). Avversario unico e sempiterno del Barca era il Real Madrid, capeggiato da Di Stefano. Helenio ribatteva alla spocchia bonaerense di Don Alfredo Di Stefano rendendogli noto di aver giocato egli pure nel River Plate. Un giorno gli avrei osservato: Ma se ha lasciato Baires a tre anni?!.... Vero: ma parlare di River Plate giovava al mio prestigio. Come se tu rimproverassi a un figlio di svaligiare una banca e lui rispondesse: Però i soldi mi fanno comodo.

Helenio faceva faville a Barcellona. Quando chiesi di lui mi disse il collega Josè Mir: Helenio es un fanfarron. Senza dubbio lo era, ma cosciente, non certo involontario. La vita matrigna gli aveva insegnato tutto, fuorché a giocar bene la palla con i piedi. Venne il giorno che Angiolino Moratti, presidente dell'Inter, si stufò di perdere e decise di assumere un tecnico degno delle sue ambizioni. Ricordo che incaricò il candido Annibale Frossi di informarsi su Herrera. Frossi venne con noi al seguito della nazionale e andò a vedere un suo allenamento a Barcellona. Tornò la sera e mi disse con magnanimo distacco: Hai presente Rocco? Bene, è un tipo come lui. Io pensavo di Rocco che fosse un fenomeno. Frossi lo giudicava con la spocchia del laureato. Ciascuno di noi la prese come gli conveniva. Io concepii grande stima per Herrera: Frossi pensava forse che il tecnico più adatto all'Inter fosse lui. Herrera venne assunto per uno sproposito di lire. Moratti era davvero stufo di perdere e incominciò una politica nuova. Herrera si comportò in Italia come un accademico di Francia nel più modesto dei licei di provincia. Esibiva jattanza francese, cultura europea, ignoranza internazionale. Venne a trovarmi (Mr. Hanot m' a dit que vous etes le seul ici a' comprendre le football) ed io gli raccomandai, con ingenua supponenza, di adottare il catenaccio, formula difensiva dell'avvenire (si era nel 60-61). Herrera impettò come offeso e cantò le laudi del WM inglese. Poi se ne andò schifato dal mio ufficio al Giorno. Cinque giornate dopo, Moratti mi avvicinò a Padova, dove Rocco aveva puntualmente infilato l'Inter, e digrignando mi disse del mago: Domenica impiegherà il libero. Così avvenne. L'Inter si raccattò passabilmente. Herrera aveva tappezzato gli spogliatoi di massime mussoliniane facendo ridere mezzo mondo. Sul libero disse che era stato lui il primo, in Francia, a giocare con il beton, che significa in gergo catenaccio. Gli inviati francesi, con l'albagia che li distingue, incominciarono a parlare di école francaise. Nessuno di loro ebbe il coraggio di descrivere i riti ai quali si abbandonava Helenio nell'imminenza della partita. A me l'aveva rivelato un ungherese che non cito. Helenio chiamava tutti intorno a sé e con voce squillante, quasi minacciosa, chiedeva: Chi vince oggi?. Tutti dovevano rispondere Noi!. Un giorno quel mascalzone di Csibor scrollò le spalle e disse: Passate a chiederlo nell'altro spogliatoio. Helenio odiava i magiari, che ne sfottevano la malvagia rozzezza di tocco...

A Milano completò le pratiche psicologiche con misteriose operazioni orali (tirava in disparte i suoi prodi a uno a uno e gli ficcava in bocca il contenuto di una bustina che pareva piena di zucchero). Tacca la bala!, urlava Herrera durante gli allenamenti: aggredisci la palla. Era, come avrebbe detto di lui il buon vecchio Eskenazi di France Soir, un entraineur Dinamò. Oggi gli somiglia molto Righetto Sacchi del Milan, ma sono passati ormai trent' anni: Sacchi è Aristotele appetto di Accaccone. Il quale comunque ha il merito di avere molto sveltito il ritmo dell'Inter e delle sue rivali, quindi del campionato. Moratti l'ha sempre pagato il triplo degli altri colleghi suoi ed ha incominciato a vincere scudetti dal 1963. I colleghi francesi seguitavano a spropositare di Ecole francaise ed io sghignazzavo pensando alle battaglie intraprese e vinte in compagnia di Rocco, Viani, Lerici, Foni, Frossi, Scopigno. Pensavo ad Allodi, il Talleyrand dell'Inter, che Herrera detestava perché sapeva bene dove finisse la tecnica e incominciasse il resto. La decadenza di Accaccone iniziò quando i suoi prodi vennero tosati alla stregua di tanti Sansoni. A Lisbona, nella finale di Coppa Campioni, avevano 10' di autonomia psicofisica. Il povero Picchi mi disse in aereo: Cos' ha mai fatto scrivere da Sofia che eravamo scoppiati! Per dimostrare il contrario, ci ha fatto lavorare il doppio: e adesso non ci reggiamo più. Pochi giorni dopo, Accaccone venne anche tradito a Mantova. La Juventus ebbe in dono lo scudetto ' 67 e spinse la propria disinvoltura ad acquistare Sarti, autore del gol. Moratti se ne andò dall'Inter e così Herrera, che non volle restare con Fraizzoli, inconcusso titano del piè di lista. La Roma gli offrì capitali senza ottenerne miracoli. In realtà, Accaccone aveva esaurito ogni riserva taumaturgica. A Roma incontrò la terza moglie, Fiora, e ne ebbe un figlio a nome Helio, che significa sole. Fosse nato nel ' 10, avrebbe 79 anni; se è nato, come credo, nel ' 16, ne ha 73. E' ancora vivace di mente e valido di nerbo. Scrive di calcio su molti giornali in francese, spagnolo e italiano. Raccomanda giocatori di cui è entusiasta senza sperare di averne grossi guadagni. E' un vecchio torero che muove la sua muleta secondo pases e veronicas da grande virtuoso. Per quanto mi riguarda. Sono convinto che ad ogni corrida gli tocchino di diritto coda, orecchie e musica.
 

Dino Sani "el pelat" sul tetto d'Europa




E' il 22 maggio del '63, il Milan di Gipo Viani e di Nereo Rocco ha appena conquistato la sua prima Coppa dei Campioni battendo il Benefica di Eusebio e Coluna per 2 a 1 grazie una doppietta in contropiede di Altafini. E' lì che il capitano Cesare Maldini, in maglia bianca, felice ma visibilmente stupefatto, alza la coppa verso il cielo di Wembley; gli è accanto sulla destra il ventenne Gianni Rivera, che ha appena donato la maglia ad Eusebio, chiuso nel trench antracite, mentre a sinistra, di profilo, ricoperto alla meglio da un soprabito nocciola, si vede un tipo magro e pelato che denuncia molto più dei suoi trentuno anni. Nato a San Paolo del Brasile, proveniente dal Boca Juniors, costui si chiama appunto Dino Sani ed è forse il più classico interno di regia che annoveri il calcio mondiale.
La breve ma felice avventura in rossonero di Dino Sani iniziò nel novembre del '61 quando Viani e Rocco furono costretti a sostituire lo straniero del Milan in seguito alla fuga dell'attaccante inglese Jimmy Greaves, giocatore di talento ma privo di serietà professionale.

Vedendolo scendere dall'aereo: il fuoriclasse carioca non aveva certamente un fisico da atleta.
Sembra un bancario (un accenno di pancia, i baffetti alla Clark Gable), non corre ma cammina, in campo sembra che non voglia battersi però non smette mai di pensare. Sani vede il rettangolo di gioco come un continuo problema di geometria e di balistica; piazzato davanti alla difesa, alla maniera degli antichi centromediani metodisti, egli si dà il compito esclusivo di recuperare la palla e di lanciarla subito in profondità. Dunque è l'ideale per il modulo di Rocco nello stesso momento in cui funge da maestro per Gianni Rivera molto più di quanto potesse esserlo anni prima, per lui adolescente, lo stesso Juan Alberto Schiaffino, genio avarissimo, uomo di colore itterico e di estri intransitivi.
Sani era lento e correva poco, ma i suoi passaggi veloci, intelligenti e precisi, correvano per lui, pescando alla perfezione le punte lanciate a rete. Talento sopraffino, grandi doti tecniche, notevole visione del gioco e due piedi d'oro che con la palla creavano capolavori squisiti, erano le qualità che facevano di Sani un regista eccelso, la "mente" geniale di un Milan votato al successo.

"Quando Nereo Rocco lo vide al campo di allenamento del Milan ebbe un sussulto. "Ma questo è un giocatore di football?" esclamò divertito. Non dava l'idea di essere un colosso né di poter combattere l'aggressività degli arrembanti difensori italiani in altro modo. E poi quella pelata . a "el Paron" non piaceva proprio.

Il campionato era già a un terzo del suo cammino quando il centrocampista brasiliano mise piede in Italia. La sua squadra, il Boca Juniors di Buenos Ayres, lo aveva ceduto ritenendolo ormai in declino dato che si avviava alla trentina. Per fortuna del Milan Sani aveva ancora parecchie frecce al suo arco e la squadra rossonera, che fino ad allora era andata a singhiozzo con un rendimento che lasciava a desiderare, con Sani cambiò letteralmente faccia. Il brasiliano, da serio professionista qual' era, accettò di esordire pochi giorni dopo il suo arrivo, il 12 novembre 1961. Si giocava Milan-Juventus e i rossoneri strapazzarono i campioni in carica con un sonoro 5-1.

Scriverà Gianni Brera nella Storia critica del calcio italiano ('78): «Quel giorno pioveva a dirotto, faceva freddo: il buon vecchio Dino ha preso il suo posto in centrocampo e il Milan ha clamorosamente infilato anche la Juventus. (...) In realtà trottignava, il mediano avversario lo saltava puntualmente, e lui seguiva corricchiando a distanza: quando la difesa riconquistava palla, il disimpegno era per lui, del tutto libero alle spalle del proprio avversario diretto: Dino controllava allora con maestria e subito lanciava alle punte. Il suo senso geometrico era eccezionale».

Da quel giorno il Diavolo infilò una serie strepitosa di risultati positivi.
Il Milan, magistralmente diretto dal "cervello" brasiliano, continuó la sua marcia trionfale andando a vincere alla grande il suo ottavo scudetto con cinque punti di vantaggio sull'Inter.
Il 22 maggio del '63, la finale di Wembley, è la partita in cui Dino Sani attinge il puro sacrificio dell'inapparenza, ed è infatti la sua partita. Il Milan parte sfavorito rispetto ad un Benfica che ha vinto le due ultime edizioni della Coppa. Al solito, Rocco affianca alla pattuglia di giovani alcuni campioni molto navigati: Giorgio Ghezzi in porta e davanti a lui capitan Maldini; in centrocampo, oltre a Dino e Rivera, il quasi imberbe Trapattoni e il ruvido Benitez: in attacco José Altafini (che dicono paventasse in trasferta le difese avversarie) sostenuto da un'ala di ruolo, Bruno Mora, e da una finta ala con funzioni di copertura e interdizione, l'anziano Gino Pivatelli. Pochi minuti ed il Milan è sotto di un gol, per una sciabolata di Eusebio. Dino sembra immobilizzato insieme con la squadra, non alza gli occhi dal terreno se non quando, con un takle portato in ritardo, Pivatelli tocca duro Coluna, baricentro portoghese, di fatto escludendolo dalla partita. Piccato, furente, il Benfica preme alla cieca e prepara pertanto l'inizio della propria fine: gli spazi si allungano davanti nella stessa misura in cui il Milan si accartoccia all'indietro; lì Dino calamita la palla e subito la allunga su Rivera che a sua volta apre in diagonale, pescando sullo scatto Alfafini. Due volte di seguito, e due gol: l'italobrasiliano pieno di efelidi e col ciuffo alla Mazzola prova a sbagliare la seconda ma è troppo solo per temere delle sue caviglie e fa centro lo stesso.
Il Milan del “pelat” é la prima squadra italiana vincitrice della Coppa dei Campioni.



domenica 16 marzo 2014

Jimmy Greaves il Piola della perfida albione





James Peter Greaves, per tutti Jimmy, debutta al White Heart Lane il 24 agosto 1957 nel corso del match tra Tottenham Hotspurs e Chelsea (1-1), schierato in attacco, “un diciassettenne dotato di tecnica, senso della posizione e personalità da campione consumato, un talento di prim’ordine con le qualità giuste per poter ricalcare le orme di Duncan Edward, il più giovane giocatore inglese ad aver vestito la maglia della nazionale”.

Un’attaccante nato e cresciuto per il gol, un rapace degli ultimi metri, uno stile tutto basato sulla rapidità di esecuzione e sull’anticipo, poche giocate spettacolari, niente tocchi di classe alla Bobby Charlton, potenza di tiro modesta, ma sempre al posto giusto nel momento giusto, come confermano i numeri 366 reti in 528 partite con Chelsea, Milan, Tottenham Hotspurs e West Ham, 44 in 57 con la nazionale inglese (solo Bobby Charlton con 49 e Gary Lineker con 48 hanno saputo fare di meglio), 100 gol segnati prima di compiere i 21 anni di età (per la precisione a 20 anni e 290 giorni, il più giovane giocatore di sempre a raggiungere una simile cifra), 41 quelli realizzati in una sola stagione (con il Chelsea nel ’60-61), 220 messi a segno con la maglia del Tottenham (massimo goleador di sempre degli Spurs), sei titoli di capocannoniere vinti.

Nel 1960/61 ha chiuso il campionato con un clamoroso bottino di 41 gol in 40 partite, peró il suo Chelsea é una squadra modesta, soltanto dodicesima e capace addirittura di subire 100 gol in tutto il campionato.

A fine maggio Gipo Viani, direttore tecnico del Milan, convince il presidente Rizzoli a sborsare 70 mila sterline e lo porta in Italia, peró un cuore ballerino costringe Viani a qualche mese di riposo forzato; il comando delle operazioni viene preso dal nuovo allenatore del Milan, che altri non è che il Paròn, Nereo Rocco.

L’esordio è il migliore possibile: in un’amichevole contro il Botafogo, a San Siro davanti a 50 mila spettatori, Jimmy conferma la regola che manterrà invariata in tutta la carriera: all’esordio con una nuova maglia, lui segna sempre.

Nereo non ha in gran simpatia gli inglesi. Pure, si aggiunge una certa incollocabilità in campo di Greaves: a volte Rocco gli dà la maglia numero 11 e lo mette ala sinistra, ma Jimmy se ne infischia e trasloca di sua iniziativa al centro, costringendo Altafini a prenderne la posizione.

Greaves è del tutto allergico a sedute tattiche, ritiri e tutte le altre manfrine per cui noi italiani andiamo pazzi: se il giorno prima della partita Rocco porta la squadra al cinema per fare gruppo, lui è il primo a sgattaiolare fuori nel buio della sala. L’unico alcol concesso è un bicchiere (di vino) al giorno; sigarette, neanche a parlarne.

Greaves non è uno sfonda-reti alla Nordahl né un fine dicitore un po’ conigliesco alla Altafini. E’ un killer dell’area di rigore dai modi spicci, che solleticherebbe ben poco la fantasia del nostro pubblico. Eppure segna, segna tantissimo: dopo il Botafogo in amichevole, si ripete anche all’esordio in campionato, a Vicenza. Due partite a secco, poi la doppietta contro l’Udinese.

La partita è spettacolare e finisce 4-3, con autogol di Sassi e gol di Pivatelli per il Milan, mentre l’Udinese va a segno con Pentrelli (due volte) e Canella.

Nonostante sia capocannoniere, niente, il Paròn non lo può vedere: “Sto mona de inglisc, xe bravo quando che xe facile. Quando xe ora de sofrìr, el salpa par la sua isola“. Piazza un’altra doppietta alla Sampdoria alla sesta giornata, ma il Milan perde 2-3 e Nereo presenta le sue dimissioni a Rizzoli: respinte, non è nello stile Milan licenziare un allenatore dopo due mesi. La settimana dopo c’è il derby, contro l’Inter campione in carica, prima in classifica e già a +3.

Domenica 1 ottobre 1961, si affrontarono il mago, strappato l’anno precedente al Barcellona dal presidente Angelo Moratti, e il triestino che Andrea Rizzoli, massimo dirigente milanista, aveva portato in rossonero convinto dagli ottimi risultati ottenuti a Padova dove era riuscito a dare un dispiacere proprio ad Herrera (2-1 all’Inter nel novembre del ’60).

Altafini diede forfait a causa di un infortunio. Il Paron, allora, puntò molta attenzione alla fase di marcatura, affidando Corso, Suarez e Hitchens rispettivamente a David, Radice e Trapattoni. Dopo soli 18’, Pivatelli portò il Milan in vantaggio, facendo dimenticare ai tifosi rossoneri l’assenza di Josè il brasiliano.

L’Inter vide vacillare le sue speranze di rimonta in avvio di ripresa. Greaves, dopo 8’, trovò il raddoppio, rispondendo nel modo migliore alla multa che la società rossonera gli aveva comminato in settimana per scarso rendimento.

La reazione nerazzurra portò al gol di Luisito Suarez e all’assedio nei venti minuti finali, vanificato dal 3-1 in contropiede di Conti quasi allo scadere dopo il gol del pareggio divorato da Hitchens.

Ma la stagione procede a singhiozzo: una sconfitta a Venezia e un’altra bizza di Greaves che fa andare su tutte le furie Rocco, la sera prima della partita col Lecco. Ecco come la racconta Cesare Maldini: “Un sabato notte, io e Altafini, che dormivamo insieme in un albergo vicino alla stazione, sentiamo dei rumori strani nella camera di fianco. Apriamo piano la porta e vediamo Greaves che scende le scale, con le scarpe in mano per non farsi sentire. Al mattino il massaggiatore Tresoldi dice a Rocco che Jimmy non è in camera. Poi, come se niente fosse, Greaves si presenta all’Assassino dove pranzavamo prima della partita, chiedendo scusa a tutti. Rocco, però, gliene dice di tutti i colori e non lo fa giocare col Lecco“.

Jimmy va a segno contro la Roma e addirittura due volte a Firenze, se non ché la Viola le suona di santa ragione: 5-2. La pazienza del Paròn è ben sotto la soglia di tolleranza e da Londra le sirene si stanno facendo sempre più insistenti. Così, su pressante richiesta del tecnico, Rizzoli decide di accettare la curiosa offerta del Tottenham: 99.999 sterline, un pound in meno della cifra tonda. Un’idea di Bill Nicholson, leggendario manager degli Spurs, per evitargli la pressione di essere il primo calciatore della storia a essere pagato 100 mila sterline.

La mossa si rivelerà geniale. Si libera un posto per un nuovo straniero: Rocco vorrebbe l’argentino Humberto Rosa, suo pupillo ai tempi del Padova, ma la società gli porta in casa il regista brasiliano del Boca Juniors Dino Sani. Di cui poco si sa, se non che il Boca l’ha scaricato volentieri, ritenendolo vecchio. Debutta in campionato in un Milan-Juve, seminando costernazione sugli spalti: è pelato, ha la panza, più che un ragioniere di centrocampo sembra un ragioniere del catasto. Ma in campo è samba: il suo ritmo cadenzato e la sua visione di gioco trascina i rossoneri alla vittoria per 5-1, con poker dell’amico Altafini: insieme avevano vinto (da comprimari) il Mondiale 1958.

Il 16 dicembre arriva subito il suo debutto con la nuova maglia: tripletta contro il Blackpool (gli Spurs vinceranno 5-2) e l’intero White Heart Lane in piedi a fine partita ad acclamare il loro nuovo idolo, che concluderà la stagione con la media di quasi un gol a partita (21 in 22 incontri). Era l’epoca del grande Tottenham di Bill Nicholson, che l’anno prima dell’arrivo di Greaves aveva centrato il double campionato-FA Cup. Ci sono lo scozzese Dave Mackay, polmoni d’acciaio e grinta da vendere, il nordirlandese Danny Blanchflower, capitano della squadra, fonte primaria del gioco degli Spurs, mirabile dispensatore di assist e giocate di classe, quindi l’ariete Bobby Smith, le ali Cliff Jones e Terry Dison, l’interno John White. E poi c’è Jimmy Greaves, che lascia il segno su tutti i successi raccolti in quegli anni dal Tottenham; nel 1962 va in rete nella finale di FA Cup vinta 3-1 contro il Burnley, l’anno successivo è protagonista con una doppietta nella finale di Coppa delle Coppe a Rotterdam contro l’Atletico Madrid, che il Tottenham (prima squadra inglese a raggiungere una finale in una coppa continentale) vince con un netto 5-1, quindi nel 1967 sono sei i gol segnati nel corso della FA Cup che finisce ancora nella bacheca degli Spurs, questa volta dopo aver regolato 2-0 il Chelsea in finale.

La parabola discendente del Tottenham comincia al termine della stagione ’66-67, quella di Greaves un paio di anni dopo, quando Nicholson prima gli toglie la maglia da titolare e poi lo cede, nel marzo del ’70, al West Ham.

A White Hart Lane, segnerà 220 gol in 321 partite (debuttando, neanche a dirlo, con una tripletta al Blackpool), vincerà due FA Cup e una Coppa delle Coppe ma mancherà l’ascensore per il paradiso ai Mondiali 1966, gli unici mai vinti dai Tre Leoni: dopo tre partite senza gol, si fa male contro la Francia e viene sostituito da Geoff Hurst, che inizia a segnare e non smette più, fino alla tripletta in finale contro la Germania. Non ha neanche mai vinto un campionato inglese, pcon il suo ineguagliato bottino da 357 gol in massima serie, terzo all-time topscorer (alle spalle di Arthur Rowley, 434 gol, e William “Dixie” Dean, 379) in assoluto del calcio d’Albione se consideriamo anche i campionati inferiori.



venerdì 14 marzo 2014

Peppìn Meazza era il Fòlber di Gianni Brera


Peppìn Meazza era il Fòlber
 di Gianni Brera 
 "Il Giornale", Agosto 1979

E' morto a Lissone Peppìn Meazza. Se n'è andato in silenzio, vergognoso di morire come si dice dei gatti, alla cui specie sorniona apparteneva. Era da tempo malato. Un chirurgo amico, Minolo Pizzagalli, gli aveva dovuto asportare mezzo pancreas e mal volentieri parlava, poi, della sua sorte più o meno vicina.

Oltre a quello, soffriva di disturbi circolatori. Sulla sua faccia gonfia affioravano vene di color rosso plumbeo. Gli occhi grandi, bovini, parevano costantemente assonnati. Pesanti palpebre calavano le lunghe ciglia a proteggere lo sguardo non timido ma talora impacciato e sfuggente. La voce gli si rompeva in gola come se una spossatezza greve negasse d'improvviso il fiato necessario ad alimentarla. Insomma, faceva tanta pena da indurre gli amici a ribellioni di puerile insofferenza e perfino di rabbia. Perché vederlo sfiorire a quel modo era come dover riflettere sui nostri anni perduti, sulla fine più o meno vicina di tutti. E non c'è nulla al mondo che dispiaccia di più alle povere ciolle che noi siamo.

Ora il Peppìn e morto. Se n'è andato in silenzio, sapendo benissimo perché la moglie lo aveva portato a Rapallo in primavera. Dovevo preparargli per tempo il "coccodrillo" e non avevo cuore. Con il dovuto cinismo gli ho telefonato a Monza: mi ha risposto già dalla tomba: "Sto ben, sto ben (come se indignato domandasse: chi te l'ha detto che muoio?): propi incoeu vo a Rapallo". E ancora una volta gli fui grato di una notizia che mi risparmiava l'odiosa incombenza di caragnare in anticipo. Nulla di più imbarazzante, nulla di più vile. Al diavolo voi che vorreste chiudere le pagine ancor prima che siano scritte! Ma ora Peppìn è morto per davvero, e ricordarlo bisogna, dire chi era, che cosa ha fatto, e cercar di non piangere perché sarebbe falso: nessuno crederebbe che piangi per lui. Contela giusta, Gioânn: col Peppìn e passata la tua vita.

E allora, via, parliamone come di un fenomeno che poco poco ha inciso sul nostro costume. Personalmente, ho finito addirittura per giocare con lui, ormai facevamo ridere entrambi; ma chiunque, ragazzino, abbia pedatato negli anni trenta, almeno per un istante, un'ora, un anno ha provato a mitizzare se stesso nel suo nome. Perché Peppìn Meazza e il football, anzi "el folber" per tutti gli italiani. Grandi giocatori esistevano al mondo, magari più tosti e continui di lui, pero non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario.

Era nato nel 1910, di fine agosto, a Porta Vittoria, non so in quale via. Sua madre aveva nome Ersilia e veniva da Mediglia, nella Bassa di Lodi. Faceva la verduratta, che era allora povero mestiere: lo chiamava "Peppino", secondo l'italiano storpiato dai lombardi: e tutti gli altri, Peppìn, e magari anche "Pepp", che è tanto bello e veloce, ma screditato ormai dalle pochades d'osteria. Porta Vittoria non finiva già al monumento delle Cinque Giornate, proseguiva per la campagna ricca di fossi e di fontanili. Quando si preparava il cantiere per una case nuova, si faceva sgombro uno spiazzo e in quello giocavano al folber i fiolett della zona. Peppìn ha dato subito la misura del suo carattere e del suo stile pretendendosi centro mediano, che nel beato calcio di quei giorni era padrone e donno del gioco (una ricerca sull'indole e poi sul carattere dei grandi campioni consentirebbe di precisare che al loro esordio hanno tutti giocato da centro mediano, center half in inglese).

Peppìn ragazzetto era gracile e denutrito. Aveva le spallucce cadenti e le ginocchia vaccine. Sottoposto a visita scolastica, e stato trovato debole di polmoni e accolto al Trotter, che era ed e l'avveniristica scuola all'aperto dei milanesi. Egli era dunque un esempio del nostro entozoo disastrato e tuttavia gagliardo, con dentro tanto nerbo da strabiliare chiunque lo sottovaluti (anche oggi, che aderiscono al calcio i soli rampolli del quarto e del quinto stato, di gran lunga i più numerosi a livello professionistico sono i lombardi).

Giocando da "fasso-tuto-mi" come in effetti consentiva il ruolo di centro mediano, Peppin teneva spesso la palla e quindi aveva modo di adeguare sempre meglio i suoi strani piedi e soprattutto i ginocchi alle necessita di controllo e di tocco. Si muoveva sornione e qualche volta ingobbiva: che era il sintomo dello scatto imminente: allora, di botto, saltava tutti a sorpresa, con tanta felicita di tempo e di gesti che subito si pensava alla miracolosa trasformazione operate dal gioco su quello scorfano apparentemente negato.

Non altro era il segreto della sue fortune calcistica: ma quando lo presero all'Inter, si invitarono i soci a ospitarlo il più frequentemente possibile per la bistecca, della quale in case non aveva abbondanza. Esordi in prima squadra al torneo primaverile di Como: l'autunno seguente, a diciassette anni appena compiuti, era già tanto bravo che venne retrocesso Bernardini a centrocampo, cosi che era l'asso patentato (o molto pagato) a dover servire il pivello più dotato di genio.

L'Inter non vinceva il campionato dal lontano 1920: ed era questo - si badi - il secondo scudetto della sua storia: il primo, avendolo arraffato nel 1910 ai ragazzi della Pro Vercelli. I1 calcio italiano soffriva tuttora di rozze e scomposte paturnie provinciali. I campi di gioco erano malvagi per ignoranza e per effettiva povertà di mezzi (hai, troppo spesso le due disgrazie si assommano). Gente che sapesse toccar palla con decenza ve n'era assai poca. Pedatori danubiani del vecchio mondo asburgico venivano a colonizzarci, ma l'insufficienza dei campi era pari all'incultura di quasi tutti, che è mancanza di tecnica e insieme di civiltà.

I favoriti del primo campionato a girone unico (29-30) non erano i milanesi dell'Inter: molto si parlava di Bologna, di Torino, di Juventus, di Genoa. L'Inter si era appena fusa con l'Unione Milanese: aveva ereditato Viani, sostituto di Bernardini, e Visentin, ala destra. Allenatore era l'ungherese Weiss, che del Peppìn era stato il primo a intuire il grosso talento.

A leggere la critica del tempo, niente o quasi si capisce di quanto avveniva sui campi, non di marcature si parlava, non di spazi. I1 modulo tecnico-tattico andava stentatamente adeguandosi alle nuove norme del fuori gioco. Consisteva soprattutto quel povero calcio di lunghe e grossolane respinte, di furbi intercettamenti, di lenti e sempiterni cross dall'ala. Cosi, il Peppìn, agile acrobata, ne venne subito esaltato.

Grevi terzini con la testa fasciata dal fazzoletto avanzavano risucchiati - cosi si diceva - dal resto della squadra in manovra di attacco: bastava dunque la lunga respinta dei difensori amici per fare ingobbire il Peppìn fra i suoi goffi custodi: i quali, per la fulminea rapidità del suo scatto, giungevano talora ad inzuccarsi comicamente. Intanto la folla, se capiss, balzava in piedi a urlare; e lui, quello scorfano incredibilmente trasformato dal brio e dalla ispirazione, caracollava a render grami gli ultimi disperati gesti del portiere, ormai condannato a subire il gol. Dice che lo chiamava addirittura fuori, neanche si fosse giunti anche nel calcio all' "haja toro!": e poi, con sorniona finta, toccava di piatto destro o sinistro nell' angolino più a tiro: un vero clamoroso cippirimerlo.

Era questa, in effetti, la clamorosa condanna di un arcaico e grossolano concetto tattico: la "metà campo da vendere". Chi pretendeva esaltarsi di quella illusione, fatalmente incappava nel Peppìn. La sottovalutata Inter, priva di grossi nomi e dunque sfavorita all'avvio, aveva istintivamente scelto il contropiede per il suo ragazzino prodigio, enfaticamente chiamato con il soprannome di moda, quello di un piccolo teppista genovese, "o Balilla". L'Inter rivinse il campionato in circostanze drammatiche, per la caduta delle tribune in via Goldoni. I1 solo a non impressionarsi per tanta rovina era stato l'abulico Peppìn e infatti, lui e non altri aveva pareggiato alla ripresa i tre gol con i quali stava già trionfando l'imprevidente Genoa di Levratto!

Su quell'inizio, la gloria. E noi crapottoni lombardi a gemere, urlare, sbavare per quel nostro paìs miracolosamente portato a pedata con tanto imprevedibile genio. Fu lui a sollevare il nostro calcio su effettivi livelli europei: lui a trasformarsi in regista inventore di gioco per dare prima la Coppa Internazionale e poi il campionato del mondo all'Italia.

Dalla generosa e gnocca Milano veniva considerato alla stregua di un prodigioso Kean vernacolo. Lucido di brillantina, gli occhi assonnati, il sorriso bullo, l'automobile (che ben pochi avevano), i quattrini facili, i balli, il gioco, le veglie presso le Maisons Tellier di mezzo mondo, il trionfante Peppin vendicava le angustie degli umili antenati e di tutti noi poveracci suoi pari, passando per un genio al quale era consentita qualsiasi stravaganza.

In realtà, giocava d'impegno - per l'Inter - soltanto se qualcuno gli mostrava a tempo giusto l'orecchio di una banconota. Si alzava dal letto quando gli altri avevano già finito di allenarsi. Faceva il gol come e quando voleva, ma solo se capiva di essere in debito, anzi in colpa con i tifosi. Era in effetti l'unico italiano a reggere il confronto con i sensazionali prestipedatori argentini e brasiliani. Amava riamato Raimundo Orsi, che sempre lo secondava, e detestava il truculento Monti, che invece lo angariava.

Ho sentito io stesso Viani accusarlo di paura ("fuffuori casa gioggiocavamo sempre in diddieci"). In verità, lo massacravano tutti con la cinica insolenza dei mediocri che non volevano farsi beffare. E come i favori del pubblico erano tutti per lui, i dirigenti lo pagavano e sopportavano a denti stretti. "Grand peintre du football" lo definirono i francesi (pensa l'ingegno) quando lo videro trionfare ai mondiali di casa loro (1938). Un embolo malerbetto salvò poi l 'Inter da quell' idolo divenuto ormai intoccabile e persino ingombrante. Gli si era gelato il piede destro così si scriveva -: e dopo quasi un anno di inutili cure gli venne squarciato dal malleolo all'alluce, finché nella vena ostruita non riprese a fluire il sangue.

Logoro per aver molto abusato di sé e per le non poche tare somatiche contro le quali aveva dovuto battersi in tutti quegli anni, il fenomenale Peppin chiuse non ancora trentenne la sue folgorante carriera di asso. Nel Milan (orrore!) lo vedemmo anfanare cianotico in volto come uno che stesse per crepare da un momento all'altro. E tanto più ingroppiva il saperlo cosi menomato, quanto più vivido era il ricordo delle sue prodezze passate.

Non è vero pero, come asseriscono alcuni, che fosse tanto modesto e schivo. Pensava a se come ad un eroe mitico, a un irripetibile e grande inventore di calcio ad alto livello. Parlava di se con l'ingenua vibrazione dell'egoista troppo tempo osannato per non ritenersi alla lunga l'unico. Quasi tutti gli ex campioni soffrono di queste ubbie e neanche lui, povero Peppin, poteva dirsene immune. Troppi, tuttavia, ne sottovalutavano l'intelligenza: parlava italiano ad orecchio, e quindi non poteva esprimere in lingua l'arguzia che per solito lo animava parlando milanese. Certo, non era un sapiens, e la informe culture gli impediva di figurare tra i tecnici del suo sport. Allenò l'Inter e qualche altra squadra minore. Venne scritturato a Istanbul e ne tornò quasi subito, lamentando la mancanza delle campane e del bitter al selz. Fece l'aiuto di Carlino Beretta in nazionale e fu, come lui, un disastro. Da ultimo, per non lasciarlo senza pane, gli diedero da istruire i ragazzi dell'Inter: ma lui, istintivamente, cercava l'ombra delle tribune.

Ormai avanti con gli anni, venne rilanciato come uomo simbolo per gli Inter club. Sbatteva le palpebre, sentendosi acclamare, e con un sorriso triste annuiva, assai poco convinto in cuor suo che quella vita meschina meritasse più di venire vissuta. Infatti, senza darlo troppo a vedere, si è dignitosamente levato di mezzo. E avendo io a lungo delirato per lui, mi dico oggi che gli eroi quelli veri, andrebbero per tempo rapiti in cielo, cosi come usava una volta, che non debbano restare fra noi a morire accorati e offesi della loro ingiustissima sorte.






I senzabrera : ricordo di Gianni Mura




I Senzabrera

di Gianni Mura

La Repubblica 19/12/1993


Da un anno siamo i Senzabrera, che scritto così sembra il cognome d'una famiglia di Salamanca o di Tucuman e forse ci frega la voglia di un neologismo: è una delle strette in cui si ritrovano i Senzabrera. Non siamo solo noi intesi come redazione sportiva di Repubblica. Ce ne sono tanti altri, da un anno giusto, da un giorno ingiusto. C'è il professor Z che scrive da New York, americano e breriano, c'è una poesia scritta in provincia di Treviso, ci sono gli amici che aveva Brera un po' dappertutto, forse non tutti veri ma questo è un altro discorso e tanto vale lasciarlo cadere.

Noi dello sport, dicevamo. Prima il Navarro, il Generale, poi Giovannino, Giuseppino, solo Bocca non aveva un diminutivo, anche perché pare un quaterback, ed era, saltuariamente, lo Zingaro per via dei baffoni. Siamo Senzabrera in assoluto e nelle piccole abitudini d'ogni giorno: sabato Brera di presentazione, lunedì di commento, mercoledì di cronaca, giovedì le lettere dei lettori. Leggevamo sul video del terminale, non solo chi faceva la titolazione. Perché se hai il vantaggio di un Brera in anticipo, lo leggi subito. E ci trovi sempre qualcosa.

E poi era bello lavorare con Brera, l'unica avvertenza era di non chiamarlo prima di mezzogiorno, di rispettare il rito: sveglia a mattino avanzato, lunghissima doccia, lettura quotidiani. "Quanto devo scrivere ? " era la sua frase di rito. Ci manca anche quella. Non era solo il "devo" a impressionare, ma il fatto in sé. Chi era Brera, lo sanno anche i più giovani, può permettersi di sforare, e poi in redazione si arrangino. E' una dimostrazione di potere e la fa pure chi non arriva al ginocchio di Brera, e se gli tagli tre righe perché sei impiccato al momento di chiudere, capace pure che protesta col direttore. Brera ci teneva a rispettare gli spazi e i tempi. Il sabato chiamava spesso da paesi non a tutti notissimi, Portogruaro, Abbadia San Salvatore, Cozzo Lamellina, poteva essere lì per una battuta di caccia o per una mangiata con amici. Scriveva e dettava dal ristorante, entro le 18 il pezzo era in redazione.

Di usare il pc non aveva voluto saperne. La vecchia Olivetti, e cartelle bianche extrastrong, non quelle già marginate di Repubblica. Spazio tre, per scrivere chiare le varianti a penna. Qualche taglio l'abbiamo dovuto fare, nei pezzi a braccio dettati dopo le partite in notturna. Perché era vero, meglio dieci righe in più che dieci righe in meno. Si tagliava a malincuore perché si si toglieva dalla pagina qualcosa che valeva la pena di essere letto. Non allungava il brodo, Brera.

E fra di noi c'è chi lo ha conosciuto di più, chi di meno, chi ha passato molto tempo anche a tavola con lui e chi gli ha parlato per telefono. Ma tutti pensiamo la stessa cosa: che il giornalista Brera ha sempre preso molto sul serio il suo lavoro e si è costantemente impegnato non solo per amor di firma, ma per amor di mestiere. Se le lettere dei lettori, quelle destinate alla sua Accademia, tardavano di mezzora, telefonava. E telefonava o interveniva di persona per fatti privati, morti in famiglia, matrimoni, compleanni. Il grande calcio non l'ha ricambiato, quando è morto lui.

Ci manca perché gli volevamo bene, non solo perché è stato per dieci anni la firma nobilitante di queste pagine. Gli volevamo bene perché aveva dei difetti, ma nessuno dei difetti delle grandi firme. Non era arrogante né presuntuoso. Ci manca il " mai paura", frase ricorrente quando gli si raccontava di una promozione in arrivo, o di un servizio difficile. Ci mancano i prepartita e i dopopartita, ore lunghissime (Gianni sono già le due. Vorrai dire che sono solo le due ) che passavano in fretta, ma qualcuno di noi qualche sera si è sottratto inventando l'unico alibi che non lo contrariava: un appuntamento, una conquista, una donna. Ah bé, ad Veneres, allora vai.

Ci manca quel suo alzarsi di contraggenio, quasi con un grugnito di ribellione interna, alla prima nota dell'inno di Mameli ( ma vi rendete conto di quanto è brutto?) e quel suo applaudire togliendosi il cappello, l'inno dell'altra nazionale. E anche gli scappellamenti ostentati, col sorriso, a quelli che da sotto la tribuna stampa, o di fianco, gli urlavano contro perché la pensavano diversamente da lui.

Ubriacone, spesso. Curioso che in un paese di mascalzoni supremi, ladri e marchettari (anche nel calcio) fosse considerato grave delitto amare il vino. E infine c'è qualcuno che abbia mai visto Brera ubriaco? Sapeva bere e sapeva quando fermarsi. Ci manca quel suo valutare il vino solo annusando il tappo. Quel modo strano di eleggere i ristoranti del cuore e dell'abitudine, a Milano come a Napoli, a Roma come a Genova. Una tana. Il ristorante pseudorusso a Parigi durante gli europei dell'84, la patronne era di Mantova, quello jugoslavo a Monaco di Baviera ai mondiali del '74, quello italiano a Mexico City ai mondiali dell'86, quello greco a Montreal all'Olimpiade del '76.

Era come se Brera cercasse una minoranza, sia pur gastronomica, in cui rifugiarsi. Salvo stupirci dichiarando: la miglior cucina del mondo è in Danimarca. E ci stupì anche nell'84, rifiutandosi di andare all'Olimpiade di Los Angeles. Diceva di non poter mettere piede negli Usa perché un mafioso aveva giurato, un sacco d'anni fa, di fargli la pelle per una storia di donne. Non ci abbiamo mai creduto, forse non gli piaceva l'idea di stare tre settimane a LA ( e non aveva torto), ma raccontava questa storia così bene (al solito) che abbiamo abbozzato.

Ci manca la sua gioia vicina al collasso la notte del 3-1 di Madrid, luglio '82. Il suo imbarazzo nel non poter mantenere la promessa di andare in processione tra i flagellatori al suo paese, il giorno di San Bartolomeo, se l'Italia di Bearzot avesse battuto il grande Brasile. I "batù" erano stati aboliti già da molti anni, a San Zenone, ma lui mancava da tanto, non lo sapeva.

Ci manca come battistrada, adesso che usciremo tutti i lunedì. Mai paura, avrebbe detto Brera. Avrebbe preso parte a tutte le riunioni di questo periodo, avrebbe detto che non è vero che la tv si mangia, la domenica, tutta la voglia di leggere, il lunedì. Avrebbe regalato ai fumatori le pipe di Brebbia che teneva sempre nel borsello d'ippopotamo. Avrebbe bevuto Barbaresco in vicolo delle Bollette. Avrebbe coniato altri neologismi. E chissà se avrebbe ritirato fuori la storia del mafioso per i mondiali del '94.

Noi dello sport di Repubblica, ricordandolo con gli amici morti con lui sulla strada fra Maleo e Codogno, gli dobbiamo l'impegno a far seriamente questo mestiere. A farlo da Senzabrera che con Brera e da Brera qualcosa pensano di aver imparato e a Brera pensano di dovere qualcosa che non si esaurisce col ricordo e il rimpianto.

Bonimba




“Ecco perché Brera mi ha chiamato Bonimba”, da CremonaOggi

Il pezzo di Enrico Pirondini, dedicato al secondo numero dei Quaderni dell'Arcimatto, tratto da CremonaOggi del 19 gennaio.

Il bomber mantovano Roberto Boninsegna pluriscudettato con Inter e Juve, vice campione del mondo a Mexico ’70, svela in un libro il suo rapporto con il grande giornalista sportivo morto 20 anni fa. E con i “Quaderni dell’Arcimatto” (curati da Adalberto Scemma) farà il suo debutto al Festivaletteratura.

Da bomber a scrittore. Dai tifosi ai lettori. Da “re” delle aree di rigore agli scaffali delle librerie. Roberto “Bonimba” Boninsegna, mantovano della più bell’acqua, classe (di ferro)1943, sta vivendo un altro magic moment. E’ da poche settimane in libreria un volume di 224 pagine in cui i big del giornalismo sportivo italiano – da Gianni Mura a Mario Sconcerti – rendono omaggio a Gianni Brera nel ventesimo della sua scomparsa, e i curatori del prezioso libro edito da “Fuorionda” (Adalberto Scemma, Alberto Brambilla) hanno voluto inserire , accanto alle illustri penne, pure la testimonianza del Bobo, pupillo del più straordinario cantore di sport del Novecento. Boninsegna non si è sottratto all’impegno. Anzi. Vi si è catapultato alla sua maniera: con schiettezza, ironia, senza orpelli e senza rossori. Risultato: tre pagine gioiello. Una rivelazione. Un inedito.

Secco l’incipit del cannoniere:”Devo a Gianni Brera se in qualche modo il mio nome è stato consegnato alla storia del calcio. Mi chiedo ancora oggi quanta importanza possa avere avuto, nel garantirmi una certa popolarità, quel soprannome, Bonimba, che Brera mi ha appioppato sin dai tempi del Cagliari”. (Boninsegna ha giocato tre stagioni con il club sardo prima di approdare all’Inter di mister Invernizzi e vincere subito la classifica dei cannonieri).

Aggiunge, a scanso di equivoci:” All’inizio, lo confesso, c’ero rimasto male. Perché Bonimba, scriveva Brera, era la sintesi di Boninsegna e Bagonghi.Proprio così: Boninsegna-Bagonghi era diventato prima Bonin-Bagonghi e subito dopo Bonimba, appunto”.

E spiega, subito dopo:”Bagonghi era una persona reale.Era un nano, agilissimo, che si esibiva nel Circo Togni.Naturalmente aveva la testa grossa e le gambe corte, come tutti i nani che si rispettano, e proprio per questo – da permaloso quale ero – mi era venuto in mente che Brera avesse costruito l’accostamento con Bagonghi per le dimensioni, rispettabili, della mia capoccia (di cappello porto almeno il 58). Così un giorno, incontrandolo dopo una partita, mi venne il desiderio di chiedergli il perché ed anche il percome di “Bonimba”.Lui mi rispose, guardandomi dal basso all’alto, che il soprannome derivava dal fatto che – pur piccolo di statura – riuscivo sempre a saltare più in alto dei difensori.Lo guardai dall’alto al basso, alzandomi ancora di più sulle punte dei piedi, e gli risposi ridendo che tra noi due il nano non ero certamente io. Dovette ammettere che in effetti, vedendomi dalla tribuna, aveva ricavato un’impressione sbagliata. E ridendo a sua volta, mi disse che nano mi aveva chiamato e nano dovevo restare.Con una concessione, però:ero un NANO GIGANTE”.

Il racconto prosegue, si accende:”Sono Bonimba, dunque, da 45 anni, erano le origini del Cagliari: io Bonimba, Giggirivva Rombo di tuono. Quei soprannomi sono passati alla storia, come tutti quelli che ha creato Brera. E mi chiedo spesso quanta memoria del sottoscritto sarebbe rimasta, tra gli amanti del calcio, se invece di Bonimba avessi continuato a chiamarmi semplicemente Boninsegna. E quanta memoria sarebbe rimasta se quel soprannome, Bonimba, l’avesso coniato un giornalista qualunque e non Gianni Brera. Sono arcisicuro che la mia storia personale avrebbe preso una piega diversa. Di Brera mi è rimasta ancora oggi cara una pagina dell’Arcimatto, la rubrica che teneva sul vecchio “Guerin Sportivo”.

Il contributo termina proprio con la pubblicazione di quel famoso articolo in cui il grande giornalista-scrittore pavese ammette di “stravedere” per Boninsegna “. Ma se scrivo che è un samurai con gli spuntoni di ferro sui gomiti e sulle ginocchia adusate gli faccio del male, lo illustro come un killer e non se lo merita, tanto l’è brao(…).

Dopo l’articolo di Boninsegna spicca un contributo di Pilade del Buono, uno che ha navigato per quasi 49 anni nei giornali (e dintorni) e che di Brera era un amico, un fan, un collega limpido (fu lui a portarlo al Giornale di Montanelli). Boninsegna , come sempre, è in buona compagnia. Un tempo c’erano con lui Riva, Albertosi,Facchetti, Jair, Mazzola, Corso. Oggi ci sono Gianni Mura, Mario Sconcerti, Darwin Pastorin, Elio Trifari.E Bonimba è sempre Bonimba. Dopo Ligabue potrebbe essere lui la sorpresa del prossimo Festivaletteratura. Già se ne parla.






Hitchens "pel di carota"




Hitchens si materializza nel calcio italiano il 24 maggio 1961, il giorno in cui allo stadio Olimpico di Roma, i “maestri” inglesi superano gli azzurri per 3-2. Illusorio il temporaneo vantaggio dei nostri, gli inglesi non ci stanno. Hitchens ottiene il pareggio e Jimmy Greaves il punto della vittoria. L’impressione che i due attaccanti lasciano nei dirigenti nostrani di club è formidabile. Nella stagione successiva il Milan si accaparra Greaves e l’Internazionale Hitchens, due grnadi colpi di mercato dell'epoca.
Storia di più di quarant'anni fa: 1 ottobre 1961. La prima volta di Helenio Herrera contro Nereo Rocco. A non aver paura dell'Inter era soprattutto Rocco, che sistemò marcature ferree (David su Corso; Radice su Suarez; Zagatti su Mereghetti, Trapattoni sul nostro Hitchens, Pelagalli su Bettini).
Dopo soli 18’, Pivatelli portò il Milan in vantaggio, facendo dimenticare ai tifosi rossoneri l’assenza di Josè il brasiliano.
L’Inter vide vacillare le sue speranze di rimonta in avvio di ripresa. Greaves, dopo 8’, trovò il raddoppio, rispondendo nel modo migliore alla multa che la società rossonera gli aveva comminato in settimana per scarso rendimento.
La reazione nerazzurra portò al gol di Luisito Suarez e all’assedio nei venti minuti finali, vanificato dal 3-1 in contropiede di Conti quasi allo scadere dopo il gol del pareggio divorato da Hitchens.

Il mago se la prese moltissimo con i suoi giocatori: «Come si fa a regalare un tempo al Milan?
Squadra fiacca, troppa fidussia dei miei. Con Hitchens si poteva anche pareggiare, no vincere e
no vincere contra Milan es male. Il Milan ha avuto ragione. Il torto è nostro».
Il primo anno collezziona 34 partite e 16 gol, peró la seconda stagione gioca appena 5 partite (1 rete) e poi passa al Torino, spodestato dal rampante Sandro Mazzola e da una visione di gioco, quella di Helenio Herrera, che non lo contempla più nei suoi schemi, in cambio di Beniamino di Giacomo e Costanzo Balleri. A quei tempi in una squadra non potevano essere tesserati più di 2 stranieri e l’Inter, avendo acquistato l'ala destra brasiliana Jair (Suarez già c’era), lo dovette cedere. nel mercato autunnale del 1962.
La tifoseria granata sembra perplessa e si immagina la solita fregatura che il piccolo deve sopportare quando ha a che fare con il grande club. Ma non è così. Occorre poco a Hitchens per conquistare il cuore dei tifosi del Toro. Basta loro vedere con quanto slancio, con quanta grinta, con quanta voglia si getta nelle mischie, affronta le partite, cerca di scardinare le difese avversarie. In granata esordisce 1 novembre 1962 nella vittoria con il Venezia, mentre il primo gol lo segna al Milan di Rcoo il 16 diciembre 1962.
Su tutto è la generosità che ne fa un atleta unico. La tecnica calcistica non è delle più raffinate, perché Gerry interpreta il calcio nella più classica delle versioni all’inglese, vale a dire un gioco che deve esaltare la forza, la spinta, l’agonismo, in altre parole, il cuore.
E cuore ne ha, questo inglese, tanto da trasformarsi rapidamente in un esempio per i compagni e, soprattutto, per i giovani torelli granata che crescono al Filadelfia a diretto contatto con i giocatori della prima squadra. Una sensibilità, umana e sportiva, d’eccezione, che arriva da lontano, radicata nell’animo. Da adolescente non ha avuto una vita agevole, anzi. Con il calcio ha saputo affrancarsene e questa è una conquista che si porta dentro come un grande tesoro, uno scrigno dal quale attingere sempre, come una sorta di “memento” che rende tutto più facile. Con un sorriso su quel suo volto di eterno ragazzo, Hitchens amava ricordare, persino con un pizzico di orgoglio, quei suoi difficili anni: «A Highley, dove sono nato, compio soltanto delle rapide visite, il tempo di abbracciare i famigliari e di ricordare con gli amici il duro lavoro in miniera.

Ho cominciato ad andare sotto quando avevo 15 anni. A Highley non c’è altro: mio padre e mio fratello lavorano ancora in miniera come tecnico e come elettricista. Io invece ero operaio: 7 ore al giorno, piegato a scavare cunicoli alti un metro e mezzo. E questa è stata la mia vita sino a 21 anni, quando dal Kidderminster Harriers sono passato al Cardiff City. Penso alla miniera quando sento qualcuno che si lamenta dei ritiri, degli allenamenti, della vita di noi calciatori e mi viene da sorridere. Quando smetterò col calcio giocato mi piacerebbe restare in Italia e fare l’allenatore. Io e la mia famiglia siamo felici di vivere in Italia e nessuno di noi ha nostalgia dell’Inghilterra. I miei figli (Marcus, Nicolas, Karen) parlano persin meglio l’italiano dell’inglese».Facile intuire perché Hitchens non scende mai in campo di mala voglia; perché insegue tutti i palloni, anche quelli che sembrano destinati al nulla; perché affronta i contrasti senza paura, perché sta in campo con la continua tensione di far bene, sorretto da una volontà raramente doma. I tifosi lo battezzano “pannocchia” per quella capigliatura giallo oro che lo rende immediatamente distinguibile in mezzo al campo.
Nel 1963 arriva mastro Rocco sulla panchina di allenatore. Hitchens fa la sua parte, con 9 reti é il capocannoniere della squadra. Qualcuno su calcio di rigore, un pezzo del suo repertorio che lascia sempre col fiato in sospeso. Hitchens, infatti, calcia il penalty da fermo, non prende rincorsa. Si avvicina al dischetto, spara in rete e non sbaglia. Solo che a vederlo ti fa salire cuore in gola.
Il 1965/65 è il migliore del “Dopo Superga”. Il Toro si classifica al 3° posto con 44 punti, preceduto dall’Inter, 54 e dal Milan 51. Hitchens disputa 32 partite e con 8 reti, è preceduto da “capitan” Ferrini e Luigi Simoni con 10 nella classifica cannonieri. Realizza però 4 reti nella Coppa delle Coppe, dove il Toro esce in Semifinale contro il Monaco 1860 dopo 3 tiratissime gare, perdendo lo spareggio di Zurigo per 2-0.
.A fine torneo Hitchens cambia casacca. Al Torino arriva Alberto Orlando, bomber in crescita, e lui si accasa all’Atalanta che lascerà per la casacca del Cagliati, sua ultima in Italia. A 35 anni rientra in Inghilterra. Con 239 partite disputate e 73 reti è tuttora il calciatore inglese che ha totalizzato più presenze e reti in serie A.



Squadre di club
1953-1954
 Kidderminster
40 (20)
1954-1957
 Cardiff City
105 (53)
1957-1961
 Aston Villa
160 (96)
1961-1963
 Inter
43 (20)
1962-1965
 Torino
113 (37)
1965-1967
 Atalanta
64 (12)
1967
 Cagliari
0 (0)
1967
 Chicago Mustangs 2 (0)
1967-1969
 Cagliari
19 (4)
1969-1971
 Worcester City
61 (35)
Nazionale
1961-1962
 Inghilterra
7 (5)




mercoledì 12 marzo 2014

Viani contro Broneè





Helge Broneè, interno danese di squisita grana tecnica degli anni '50. Arriva in Italia grazie a Gipo Viani, cui il Principe Lanza di Trabia, presidente del Palermo chiede di portare "il più forte giocatore del mondo". Il tecnico indica proprio Broneè, di cui conosce la fama, ma del quale evidentemente ignora gli eccessi. Mal gliene incoglie, e vedremo perchè. Sbarca a Palermo e subito fa innamorare il pubblico rosanero. E' un giocatore capace di fare da vero uomo squadra, imposta al meglio il gioco e sa concluderlo nel migliore dei modi. Se però gli gira storta, la squadra si ritrova con un uomo in meno. E' capace di mettersi a giocare sul lato di campo all'ombra, se ritiene che il sole sia troppo forte, oppure di rifiutarsi di accorrere in difesa se la squadra deve difendere il risultato.
Lo scontro all’ultimo sangue tra i due, ebbe inizio nel corso di una partita che il Palermo stava cercando di pareggiare col più classico dei catenacci, una delle specialità del tecnico trevigiano, che proprio per affinare questa tattica di gioco aveva inventato la figura del libero spazzino, che aveva fatto definire il suo modulo Vianema, cioè Sistema alla Viani. Per Bronèe, però, il catenaccio era solo una ingiuria al pubblico pagante e per protestare contro questo modo di giocare, che evidentemente non gradiva, ad un certo punto il danese si spostò in difesa buttando la palla in fondo al sacco, nel più classico e voluto degli autogoal. Apriti cielo! Negli spogliatoi, Viani decise che era troppo e gli mise le mani addosso, tanto che dovettero faticare non poco per levarglielo dalle stesse.
Lui gliela giura e appena può, si vendica. Accade quando la Roma, appena tornata in serie A, intavola una trattativa per garantirsi le sue prestazioni. Lui accetta, ma pone come condizione che venga allontanato dalla guida tecnica giallorossa il tecnico. Che, guarda caso, è proprio Gipo Viani. Sacerdoti, non si sa se a malincuore, si adegua e la sua vendetta è servita su un piatto d'argento.
Alla Roma, il teatrino personale di Bronèe, si arricchì di nuovi esilaranti episodi. A partire dal ritiro di Montalbieri, ove un giorno, il dirigente Crostarosa, appena arrivato da Roma, si trovò davanti “Toceto” Renosto travestito da Hitler, con una bionda sconvolgente sotto braccio. La bionda sconvolgente era il terzino Eliani, i cui lineamenti delicati si adattavano benissimo alla messa in scena. Il regista di questa messinscena, inutile dirlo, era proprio Bronèe, con il fine di rompere la monotonia del ritiro. Il tutto sotto la serafica supervisione del nuovo allenatore, Varglien, il quale aveva immediatamente capito che l’unico modo per non entrare in rotta di collisione con Bronèe, era quello di assecondarlo. Come detto, la piece di cui stiamo parlando, non avrebbe potuto svolgersi al meglio, senza la appassionata partecipazione di altri attori. E uno di questi, forse il più pazzo di tutti, dopo il danese, è quasi pleonastico dirlo, fu Bepi Moro. Il sodalizio cui dettero vita i due, fu veramente qualcosa di pericolosamente vicino ad un vero manicomio. Moro, era un altro dei più stravaganti giocatori dell’epoca, un vero personaggio che non rasentava la spacconerie, andava molto oltre. Basti dire che era solito portarsi una foto di Santa Rita da Cascia da mostrare nell’immediato approssimarsi della gara  a qualche malcapitato avversario, assicurandogli al contempo che quel giorno non avrebbe segnato neanche con l’aiuto proveniente dall’alto. Suggestione o altro, molto spesso era proprio quello che succedeva. Moro, naturalmente ci metteva del suo, se si pensa che stiamo parlando di uno dei migliori prtieri della sua epoca, uno che nelle giornate di grazia, era praticamente capace di sprangare la sua porta. Senonchè, c’era anche il rovescio della medaglia, dovuto alla mancanza di concentrazione che a volte lo portava a distrarsi dalla contesa, regalando reti incredibili agli avversari, per la disperazione dei suoi tifosi. Voci mai confermate, volevano che questa mancanza di concentrazione fosse anche dovuta ad una passione per il gioco, che rasentava l’autodistruzione e che svuotava spesso le sue tasche, costringendolo ad accomodare le partite per poter pagare i debiti di gioco. Naturalmente con due pazzi scatenati di simile portata, il divertimento era assicurato. In alcune partite, quando la squadra si buttava all’assalto della porta avversaria, nel tentativo di scardinare il catenaccio avversario, Moro avanzava sin quasi a centrocampo, come volesse partecipare anche lui al forcing offensivo. E quando succedeva, Bronèe assecondava il suo portiere, chiamandolo all’assalto per il grande divertimento della tifoseria romanista e la gioia dei cronisti, increduli di fronte ad un simile sfoggio di follia. Follia che però Bronèe sapeva anche farsi perdonare nelle giornate di grazia, nelle quali sciorinava i numeri di una classe immensa. E naturalmente, le giornate di grazia non mancavano quando il danese si ritrovava davanti il nemico Viani. In quelle occasioni i suoi numeri avevano come teatro il fazzoletto di campo di fronte alla panchina dell’inventore del Vianema, cui non restava che assistere sconsolato allo sfoggio provocatorio di un talento che non aveva saputo, o meglio potuto, disciplinare.
 Le cose andarono avanti in questo modo per molto tempo, ma poi arrivò il redde rationem. E arrivò in un malaugurato 25 ottobre 1953, giorno di una sfida contro l’Inter. La partita, vide una straordinaria prestazione dell’asso danese, una vera e propria direzione artistica sotto la quale la Roma si avviava a battere i nerazzurri dopo averli dominati da un capo all’altro della partita. Proprio quando tutto sembrava finito, Lorenzi beffò Moro con una palla che sembrava apparentemente innocua. Nessuno riuscì a spiegarsi come avesse fatto uno come lui, a farsi battere da un tiro che sarebbe stato parato anche da un bambino. Il pareggio dell’Inter aprì finalmente le porte alle recriminazioni dei compagni verso Bronèe, che pure non c’entrava nulla. Il più irritato fu proprio Arcadio Venturi, quello che non aveva mai alzato la voce contro un compagno, il quale persa del tutto la trebisonda accusò di tutte le nefandezze possibili il danese. La reazione del quale si esplicitò con il lancio di uno scarpino. Per colmo di disgrazia, proprio mentre Venturi, si chinava per evitarlo, passava il dirigente Campilli, accorso nello spogliatoio per cercare di calmare il tumulto. Il quale fu preso dall’oggetto scagliato da Venturi. La società decise allora di mettere fuori squadra il fuoriclasse nordico, tagliando i suoi emolumenti della metà, specificando al contempo che il provvedimento sarebbe stato sospeso in caso di scuse di Bronèe. Quando sembrava che il danese fosse sul punto di andare a Canossa, lo stesso Bronèe decise di tenere fede al suo personaggio, rifiutandosi di scusarsi. Non solo, ma affermò anche che avrebbe continuato a giocare con la squadra riserve sino a quando non fosse stata la scoietà giallorossa a scusarsi con lui. L’esperienza romanista era ormai giunta al capolinea, quando nell'estate del 1954 la Juventus si presenta all'uscio di Sacerdoti, il Banchiere di Testaccio è ben felice di aderire all'offerta economica bianconera, liberandosi di quello che ormai è chiaramente un elemento di disturbo. Broneè giocherà ancora due stagioni in Italia, l'ultima a Novara, prima di lasciare orfana quella stampa sportiva che aveva fatto di lui un mito e alla quale aveva offerto materiale in abbondanza col quale ovviare ai periodi di magra.

DATI ANAGRAFICI

 
CognomeBronèe
NomeHelge
Data e luogo di nascita28/03/1922, Nobolle (Danimarca)
Altezza e pesoND
Esordio14/9/52, Triestina-Roma 2-3
RuoloInterno
Nazionale/esordio-

LA CARRIERA

 
Anno
Squadra
SeriePTRT
1948-49MetzD121 1
1949-50MetzD121 1
1950-51PalermoA35 11
1951-52PalermoA3511
1952-53RomaA32 6
1953-54RomaA19 6
1954-55JuventusA2911
1955-56NovaraA27 10