lunedì 24 marzo 2014

Dino Sani "el pelat" sul tetto d'Europa




E' il 22 maggio del '63, il Milan di Gipo Viani e di Nereo Rocco ha appena conquistato la sua prima Coppa dei Campioni battendo il Benefica di Eusebio e Coluna per 2 a 1 grazie una doppietta in contropiede di Altafini. E' lì che il capitano Cesare Maldini, in maglia bianca, felice ma visibilmente stupefatto, alza la coppa verso il cielo di Wembley; gli è accanto sulla destra il ventenne Gianni Rivera, che ha appena donato la maglia ad Eusebio, chiuso nel trench antracite, mentre a sinistra, di profilo, ricoperto alla meglio da un soprabito nocciola, si vede un tipo magro e pelato che denuncia molto più dei suoi trentuno anni. Nato a San Paolo del Brasile, proveniente dal Boca Juniors, costui si chiama appunto Dino Sani ed è forse il più classico interno di regia che annoveri il calcio mondiale.
La breve ma felice avventura in rossonero di Dino Sani iniziò nel novembre del '61 quando Viani e Rocco furono costretti a sostituire lo straniero del Milan in seguito alla fuga dell'attaccante inglese Jimmy Greaves, giocatore di talento ma privo di serietà professionale.

Vedendolo scendere dall'aereo: il fuoriclasse carioca non aveva certamente un fisico da atleta.
Sembra un bancario (un accenno di pancia, i baffetti alla Clark Gable), non corre ma cammina, in campo sembra che non voglia battersi però non smette mai di pensare. Sani vede il rettangolo di gioco come un continuo problema di geometria e di balistica; piazzato davanti alla difesa, alla maniera degli antichi centromediani metodisti, egli si dà il compito esclusivo di recuperare la palla e di lanciarla subito in profondità. Dunque è l'ideale per il modulo di Rocco nello stesso momento in cui funge da maestro per Gianni Rivera molto più di quanto potesse esserlo anni prima, per lui adolescente, lo stesso Juan Alberto Schiaffino, genio avarissimo, uomo di colore itterico e di estri intransitivi.
Sani era lento e correva poco, ma i suoi passaggi veloci, intelligenti e precisi, correvano per lui, pescando alla perfezione le punte lanciate a rete. Talento sopraffino, grandi doti tecniche, notevole visione del gioco e due piedi d'oro che con la palla creavano capolavori squisiti, erano le qualità che facevano di Sani un regista eccelso, la "mente" geniale di un Milan votato al successo.

"Quando Nereo Rocco lo vide al campo di allenamento del Milan ebbe un sussulto. "Ma questo è un giocatore di football?" esclamò divertito. Non dava l'idea di essere un colosso né di poter combattere l'aggressività degli arrembanti difensori italiani in altro modo. E poi quella pelata . a "el Paron" non piaceva proprio.

Il campionato era già a un terzo del suo cammino quando il centrocampista brasiliano mise piede in Italia. La sua squadra, il Boca Juniors di Buenos Ayres, lo aveva ceduto ritenendolo ormai in declino dato che si avviava alla trentina. Per fortuna del Milan Sani aveva ancora parecchie frecce al suo arco e la squadra rossonera, che fino ad allora era andata a singhiozzo con un rendimento che lasciava a desiderare, con Sani cambiò letteralmente faccia. Il brasiliano, da serio professionista qual' era, accettò di esordire pochi giorni dopo il suo arrivo, il 12 novembre 1961. Si giocava Milan-Juventus e i rossoneri strapazzarono i campioni in carica con un sonoro 5-1.

Scriverà Gianni Brera nella Storia critica del calcio italiano ('78): «Quel giorno pioveva a dirotto, faceva freddo: il buon vecchio Dino ha preso il suo posto in centrocampo e il Milan ha clamorosamente infilato anche la Juventus. (...) In realtà trottignava, il mediano avversario lo saltava puntualmente, e lui seguiva corricchiando a distanza: quando la difesa riconquistava palla, il disimpegno era per lui, del tutto libero alle spalle del proprio avversario diretto: Dino controllava allora con maestria e subito lanciava alle punte. Il suo senso geometrico era eccezionale».

Da quel giorno il Diavolo infilò una serie strepitosa di risultati positivi.
Il Milan, magistralmente diretto dal "cervello" brasiliano, continuó la sua marcia trionfale andando a vincere alla grande il suo ottavo scudetto con cinque punti di vantaggio sull'Inter.
Il 22 maggio del '63, la finale di Wembley, è la partita in cui Dino Sani attinge il puro sacrificio dell'inapparenza, ed è infatti la sua partita. Il Milan parte sfavorito rispetto ad un Benfica che ha vinto le due ultime edizioni della Coppa. Al solito, Rocco affianca alla pattuglia di giovani alcuni campioni molto navigati: Giorgio Ghezzi in porta e davanti a lui capitan Maldini; in centrocampo, oltre a Dino e Rivera, il quasi imberbe Trapattoni e il ruvido Benitez: in attacco José Altafini (che dicono paventasse in trasferta le difese avversarie) sostenuto da un'ala di ruolo, Bruno Mora, e da una finta ala con funzioni di copertura e interdizione, l'anziano Gino Pivatelli. Pochi minuti ed il Milan è sotto di un gol, per una sciabolata di Eusebio. Dino sembra immobilizzato insieme con la squadra, non alza gli occhi dal terreno se non quando, con un takle portato in ritardo, Pivatelli tocca duro Coluna, baricentro portoghese, di fatto escludendolo dalla partita. Piccato, furente, il Benfica preme alla cieca e prepara pertanto l'inizio della propria fine: gli spazi si allungano davanti nella stessa misura in cui il Milan si accartoccia all'indietro; lì Dino calamita la palla e subito la allunga su Rivera che a sua volta apre in diagonale, pescando sullo scatto Alfafini. Due volte di seguito, e due gol: l'italobrasiliano pieno di efelidi e col ciuffo alla Mazzola prova a sbagliare la seconda ma è troppo solo per temere delle sue caviglie e fa centro lo stesso.
Il Milan del “pelat” é la prima squadra italiana vincitrice della Coppa dei Campioni.



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