giovedì 9 aprile 2015

La Storia Di Bela Guttmann


Bela Guttmann era di origini ebraiche, come faceva chiaramente intendere il suo nome, ed aveva chiare tradizioni magiare. La sua vita era in perfetto stile ungherese. Unite tutto questo, ed il risultato sarà: Béla Guttmann.
Nasce a Budapest, il 27 Gennaio del 1899, come fosse un regalo per il passaggio di secolo; i genitori, Abraham ed Eszter, erano entrambi dei ballerini ed iniziarono il figlio alla stessa pratica. A sedici anni questi possedeva già la qualifica di istruttore di danza classica, ma ovviamente, la sua era una "passione forzata", Béla voleva giocare a calcio, che nel periodo della sua giovinezza, stava iniziando ad avere seguito nell'impero Austro-ungarico. 
Dopo aver intrapreso la carriera sportiva in Ungheria si spostò in Austria, nella capitale Vienna. La città era ricca di fermenti culturali ed il calcio era un argomento di cui gli intellettuali discutevano nei caffè; lo stesso Guttmann ricordò con nostalgia la parentesi trascorsa nel centro Mitteleuropeo, dove tra l'altro, si laurea in psicologia.
La vita di Guttmann fu condizionata, nella prima fase della sua vita, ovvero sia quella da calciatore, dalle persecuzioni naziste sugli ebrei. Lui era un ottimo centrocampista, uno di quelli che pensava calcio ad una velocità diversa dalla norma, poteva essere un giocatore ambito da chiunque. Iniziò nel Torekves, passò all'MTK (una delle squadre più importanti dell'epoca) per poi trasferirsi all'Hakoah Vienna. Qui gioca per cinque anni, e più passava il tempo, più in Europa l'aria diventava "ostile" per gli ebrei, per motivi che tutti sappiamo.
Nel 1926, in seguito ad una tourneè negli Usa della sua squadra, decise di non far più ritorno in Europa. Giocò a calcio, in squadre praticamente costituite da europei emigrati; spacciò alcool durante il proibizionismo, e speculò in borsa. Il crollo di  Wall Street gli fece perdere 55mila dollari. Questo avvenimento lo segnò profondamente, perchè mentre veniva considerato, pre-crollo una mente ingegnosa, post-crollo gli amici iniziarono ad apostrofarlo come “poveraccio”. Non si diede mai pace per questo, Béla non amava fallire, fu per questo che, in futuro, si sarebbe fatto pagare lautamente le sue prestazioni da allenatore, per dimostrare che lui è il migliore e che i migliori vanno sempre rispettati. Come già detto, Béla era un tipo instabile; giocò solo quattro partite con la nazionale ungherese, perché durante una serie di incontri nel 1924, disse che nel gruppo c’erano più dirigenti che giocatori, e che l’albergo dove erano stati fatti alloggiare era più adatto a “socializzare” che non alla preparazione. Così attaccò per la coda dei topi alle porte delle stanze dei dirigenti accompagnatori: con la nazionale aveva chiuso per sempre.  Quella nazionale non poteva perdere, quanto meno doveva giocarsela con l'Uruguay; oltre Béla, centromediano metodista c'era Arpad Weisz numero 10 classico. A quel tempo però, l'Ungheria è sotto il controllo di Horti, un nazionalista con velleità antisemite, che, infiltra la squadra di suoi uomini, dirigenti. I calciatori vengono trattati come bestie, e da lì, nasce la protesta di Béla, il "Grande Ammutinamento del 1924", dove la grande Ungheria si fece battere, dal modesto Egitto.
Tornare a Budapest, era complicato, per tutti, e infatti Guttmann, chiuse con la nazionale, chiuse con il Torekves di Guttmann e Weisz e se ne andò via, per non subire la repressione dei nazionalisti. Intanto Guttman resta fino al '33 fuori dall'Europa, ed una volta rientrato ringrazia Dio per aver trovato rifugio in Svizzera. Inizia così in gran segreto la sua carriera da allenatore, tornando all'Hakoah. Fin da subito Béla dimostrò di essere un allenatore controverso, a causa della sua spiccata personalità e dei tempestosi rapporti con stampa e dirigenti, ma i calciatori percepivano fin da subito di avere davanti a se un genio, uno che rompeva gli schemi logici del calcio, e ne vedeva altri, invisibili ai più. Ha allenato in tutto il mondo: Ungheria, Austria, Olanda, Brasile, Uruguay, Italia, Cipro, Romania, Argentina, Svizzera, Grecia, Portogallo. Lanciò giocatori come Eusebio, Puskas, Cesare Maldini, Lorenzo Buffon, tutti calciatori scoperti da lui. Fu anche innovatore in terra brasiliana con il 4-2-4 (rivisitazione del modulo WM) al Santos, modulo che avrebbe consentito al Brasile di vincere tre Mondiali tra il ’58 ed il ’70 (e in molti, all’epoca, giurarono di aver rivisto in quel Brasile la grande Ungheria di qualche anno addietro…). Aveva metodi d’allenamento innovativi, amava il calcio offensivo e fu tra i primi a dare grande importanza al rigore tattico. «Non mi sono mai preoccupato di sapere se gli avversari avessero segnato, perché ho sempre pensato che noi avremmo potuto segnare ancora – diceva – chi domina gli animali, nella cui gabbia conduce il proprio spettacolo, finché li tratta con fiducia in sé e senza paura. Ma nel momento in cui diventa incerto della sua energia ipnotica, ed i primi segni di timore appaiono nei suoi occhi, è perso»
La sua filosofia era chiaramente offensiva, voleva che si attaccasse con lanci lunghi a servire le punte, che lo stopper si alzasse in linea con i centro mediani per condurre gioco, sempre palla a terra, ma soprattutto chiedeva ai suoi grande aggressività e voglia di vincere in campo, uniti per un comune obbiettivo. Abbiamo già detto che era un tipo molto carismatico, e che questo lo portava a scontrarsi. Fu proprio in seguito ad un litigio con Puskas, reo di non togliere fuori tutto il suo talento, che abbandonò la guida dell'Honved nel ’49, e quando nel 1955 fu esonerato dal Milan dichiarò alla stampa: «Sono stato licenziato anche se non sono né un criminale né un omosessuale. Addio».
Molte sono le vicende strane, talvolta oscure, ma di fatto leggende, che lo vedono protagonista di accuse di doping, di occultismo, di attività economiche illecite sugli acquisti dei calciatori, ma appunto, di leggende si trattano. Di fatto il suo modo di pensare calcio lo porta al Benfica, e forse, in questo caso, i Lusitani tifosi del Benfica, alla storia dell'occultismo, ci credono per davvero. Con le aquile” portoghesi Guttmann avrebbe vinto 2 campionati e 2 Coppe dei Campioni di fila, dominando la scena calcistica mondiale con un 4-2-4 che dava spettacolo: calcio tecnico, offensivo, difensori rocciosi e pronti al pressing sull'uomo, rilanci precisi del centrometodista, ma soprattuto una delle scoperte più importanti del calcio: Eusebio.
La leggenda narra che questi, di ritorno da una tournée nelle colonie portoghesi in Africa, aveva interrotto uno dei rari momenti di relax di Guttmann irrompendo nel negozio di un barbiere, dove si trovava il suo vecchio allenatore in attesa di una bella sfoltita di capelli. Lì Guttmann scopre un particolare....Il diciottenne Eusébio giocava per un club affiliato allo Sporting, l’acerrimo rivale delle “Aquile”. È toccato quindi a Guttmann escogitare un piano per soffiarlo ai nemici di sempre. 20.000 dollari versati alla madre della “Pantera Nera”
Un’auto all’aeroporto di Lisbona vicino alla pista di atterraggio per prelevare il giocatore prima degli emissari dello Sporting, in attesa fuori dal terminal. Qualche giorno in un villaggio di pescatori nell’arcipelago dell’Algarve per aiutare Eusébio a riflettere sul contratto propostogli dal Benfica. Una settimana dopo il successo contro il Barcellona in Coppa dei Campioni al “Wankdorf” di Berna, il fenomeno del Mozambico vestiva per la prima volta la maglia rossa del Benfica fresco Campione d’Europa.
Intanto però iniziano i primi attriti con la dirigenza. Guttmann vuole un amento di quattromila dollari: richiesta respinta, ma intanto porta la squadra nuovamente in finale contro il Real Madrid. Béla è scuro in volto, ma riesce a vincere per 5-3 la finale. Dovrebbe essere festa grande in quel di Amsterdam, ma fu la finale delle lacrime di Eusebio e compagni. Guttmann annuncia alla squadra le dimissioni.
Béla Guttmann è sempre stato uno dalla teoria del tutto scorre: non più di due anni nella stessa squadra, ma con il Benfica era venuta a crearsi un'empatia forte, che non avrebbe mai voluto spezzare. Non fu tanto per i soldi (ricordate Wall Street), ma per l'offesa di non essere stato trattato come il migliore. «Dalla vittoria della Coppa Campioni ho guadagnato 4.000 dollari in meno rispetto a quella del campionato, e nessuno ha voluto muovere un dito per cambiare le cose». Se ne andò, lasciando una maledizione che quasi da forza alla tesi dell'occultismo: <<Senza di me, il Benfica non vincerà più una finale Europea>>
Otto finali, altrettante sconfitte, la maledizione di Guttmann ha segnato in pieno di destino del Benfica. Un mancato aumento ha macchiato l'amore tra il Benfica e Guttmann, che comunque resta saldo nel cuore dei tifosi. 
Béla Guttmann è stato un genio, instabile, rivoluzionario e sempre contro le regole. Tanti sono gli aneddoti su di lui che varrebbe la pena ascoltare, perchè di fatto quest'uomo è stato e sempre sarà un'icona di questo sport.
Se andate a Budapest, cercate un "Borozo", anzi Il Borozo. Sarebbe un Wine Bar; precisamente cercate il 6:3 (chiamato così per la vittoria storica contro l'Inghilterra nel 1953). I baristi parlano bene inglese, meno le persone che lo frequentano da sempre. Insieme ad un buon bicchiere di Tokaj, chiedete loro la storia del grande ammutinamento del '24, chiedete del Torekves, chiedete di Weisz, chiedete di aneddoti irreperibili, ma soprattutto, chiedete di Béla Guttmann.
Champions League/Copa de Europa
- 1962/63: contra el Milán.
- 1964/65: contra el Inter de Milán.
- 1967-68: contra el Manchester United.
- 1987/88: contra el PSV Eindhoven
- 1989/90: contra el Milán.
Europa League /Copa de la UEFA
- 1982/83: contra el Anderlecht
- 2012/13: contra el Chelsea
- 2013/2014: contra el Sevilla.

 

Luisito Suarez, Il Dieci Della Grande Inter



Quando l'inviato dell'Inter, rivelò che il motivo della sua visita era l'acquisto di Luis Suarez per conto di Angelo Moratti, Mirò, il Presidente del Barcellona si alzò da dietro la scrivania di mogano lucido con alle spalle la bandiera blaugrana e lo congedò pronunciando una frase destinata a diventare famosa: "No hay dinero para buscar a Suarez !".
"El dinero" Angelo Moratti lo trovò, in misura perfino imbarazzante per lo stesso Barcellona che non avrebbe mai osato pensare ad una cifra simile: 300 milioni di lire dell'epoca, siamo nel 1960, una follia.
Per avere un'idea basta pensare che cinque anni prima la Juventus aveva pagato Omar Sivori 110 milioni ed il River Plate, con quei soldi "italiani", non solo aveva ripianato una pesante situazione debitoria, ma aveva anche finito di costruire l' "Estadio Monumental".
Fu così che Luis Suarez Miramontes, la migliore mezz'ala che la Spagna abbia mai avuto, e che quarant'anni dopo sarebbe stato eletto "miglior giocatore spagnolo di sempre" passò alla corte dell'ambiziosa Inter di Helenio Herrera e di Angelo Moratti. Luis Suarez era già allora, a soli venticinque anni, un grande.
Nato a La Coruna, in Galizia, doveva a questo il fatto che compagni ed avversari lo chiamassero "el gallego", il galiziano. Arrivato giovanissimo nel Barcellona allenato da Helenio Herrera, già Mago, vince per due volte consecutive la Liga (1958-59 e 1959-60), conquista due volte la Coppa di Spagna (1957 e 1959), due volte la Coppa delle Fiere (1956-58 e 1959-60) e sfiora la vittoria nella Coppa Campioni dopo aver eliminato il Real Madrid di Puskas e Di Stefano nel 1961. 
L'anno prima, nel 1960, ha vinto il Pallone d'Oro imponendosi all'attenzione dell'intera Europa come l'erede del grande Alfredo Di Stefano e la sua stella brilla ormai luminosa nel firmamento calcistico europeo e mondiale. Quando arriva all'Inter è la classica mezzala del WM, un interno di punta, un giocatore votato all'attacco che segna molto: in 216 gare nella Liga ha segnato 112 reti, cifre importanti anche per l'epoca.
All'Inter però, dopo un avvio sulla stessa falsariga di interno molto offensivo (all'esordio contro l'Atalanta a San Siro Gianni Brera nel suo tabellino personale gli assegna 27 conclusioni verso la porta bergamasca!) si trasforma in regista.  In questo ruolo, tipico del calcio anni '60, e fondamentale negli schemi del calcio all'italiana, Suarez semplicemente non ha rivali. E' lui che detta i tempi all'Inter di Herrera, ed è lui che lancia con precisione millimetrica le fughe di Jair, la velocissima ala brasiliana, e i contropiede di Sandrino Mazzola, il figlio del Grande Valentino.
Herrera imposta la squadra attorno ad una difesa quasi impenetrabile, protetta da una cerniera di centrocampo imperniata sul talento di Luisito capace di rovesciare il gioco con rapida efficacia trasformando la difesa in attacco con un solo tocco. 
Il mago è pazzo di lui, lo coccola, lo ama, e lo difende a spada tratta anche facendo delle "preferenze". Una volta, in ritiro, i giocatori dell'Inter riunitisi in una camera, banchettarono bevendo e fumando, fino a che entrò Herrera che rimproverò tutti... Tranne Suarez! Allorché Corso gli fece presente la negligenza, ed Herrera alzò il capo, ed in rabbioso silenzio, uscì dalla camera! Mai rimproverare la mente del suo gioco dunque il suo pupillo.
L'Inter intanto però, si impone in Italia, in Europa e nel Mondo: in soli cinque anni vince tre scudetti, ne perde uno allo spareggio con il Bologna, un altro all'ultima giornata crollando a Mantova, trionfa in due edizioni della Coppa Campioni e vince due Coppe Intercontinentali.
Di quella squadra Suarez è la mente, è il primo difensore ed insieme il primo attaccante, affronta l'avversario in tackle, e riceve tutti i disimpegni della difesa che, a seconda del momento, trasforma in letali contropiede oppure imposta per dar respiro alla squadra ed ai suoi velocisti.
Non è raro nei filmati in bianco e nero delle partite della Grande Inter vederlo con le mani allargate far segno di rallentare ai suoi compagni e chiamarli a smarcarsi per impostare il palleggio in grado di allentare la pressione sulla difesa.
Ma il suo numero migliore è il lancio per Jair, per Domenghini, per Mazzola, per Peirò: sono lanci spesso rasoterra, sempre precisissimi, che mettono il compagno di squadra in condizioni ideali per concludere a rete oppure per agire in superiorità numerica contro la difesa avversaria.
Non ha un carattere facile Luis Suarez.
Certe volte il suo carattere focoso lo tradisce, lo porta pericolosamente a trascendere ad usare addirittura la cattiveria nel tackle a gamba tesa, oppure a battibeccare con l'avversario rischiando, nelle giornate di scarsa vena, sanzioni disciplinari evitabilissime.
E' però anche bravissimo nel provocare l'avversario, inducendolo alla reazione: leggendario un derby col Milan nel quale determinò col suo comportamento l'espulsione del peruviano Benitez ed il conseguente crollo milanista.
Nel 1964 trascina la Spagna alla conquista del suo unico alloro internazionale, la Coppa Europa del 1964 , vinta battendo l'Unione Sovietica a "Chamartin", l'attuale Santiago Bernabeu, lo stadio dell'eterno nemico: il Real Madrid. E' una vittoria storica anche perché rompe l'isolamento della Spagna "franchista" che non intrattiene relazioni diplomatiche con l'URSS e che nella precedente edizione ha rifiutato di incontrarla.
Di questo inaspettato trionfo, Suarez è l'indiscusso artefice con la sua raffinata e sapiente regìa che dà qualità ad una squadra spagnola giovane e determinata, ma qualitativamente inferiore all'Unione Sovietica .
Luis riporta in quella squadra parte del gioco che lo ha fatto trionfare con l'Inter, facendo del contropiede e della saldezza difensiva i capisaldi che portano "las furias" alla vittoria.
La sua serata più indimenticabile, tuttavia, la vive ancora a "Chamartin", ma con l'Inter, in una gara dei quarti di finale di Coppa Campioni nel 1967. Il Real, che ha una squadra giovane impostata sul talento di Pirri e di Amancio, è tornato Campione d'Europa spodestando la favoritissima Inter l'anno prima quando l'ha eliminata in semifinale. Stavolta i nerazzurri partono con un risicato vantaggio di 1-0, conquistato a San Siro, e c'è chi crede che il Real possa avere ancora la meglio.
Ma Luisito Suarez, quella sera, disputa la migliore partita di una grandissima carriera, domina letteralmente il centrocampo avversario, serve la palla per il gol del vantaggio a Cappellini, poi chiude alla grande la partita propiziando il gol del definitivo 2-0. Riceve palla sulla tre quarti del Real, salta un avversario, ma si trova davanti solo maglie bianche, allora punta deciso verso l'area, uno spagnolo gli esce incontro, tunnel, recupera il pallone e cerca di passare la palla al centro dove sono liberi due compagni di squadra. Il difensore madrileno Zoco cerca di evitare il gol sicuro e segna il più classico degli autogol deviando il cross a colpo sicuro nella sua rete.  Chamartin ammutolisce ed alla fine Luis Suarez, fin lì beccato continuamente dal pubblico, esce in un rispettoso silenzio... Seguito da uno scrosciante rumorio di applausi quasi obbligati.
Dopo quell'apoteosi purtroppo arriva la batosta.
Suarez si infortuna nel finale del Campionato che la vede in lotta con la Juve e deve rinunciare anche alla finale di Coppa Campioni, a Lisbona, contro il Celtic. L'Inter, privata della sua sapiente regìa, una volta passata subito in vantaggio con un rigore di Mazzola, finisce col chiudersi troppo e gli scatenati scozzesi riescono a rimontare e vincere.
Qualche giorno dopo il dramma si compie. L'Inter, esausta, e con un Suarez rattoppato, perde a Mantova consegnando uno scudetto incredibile alla Juventus.
E' la fine della Grande Inter.
Suarez resta all'Inter ancora per tre Campionati, buoni, ma senza più raggiungere i suoi livelli. Di "el gallego" resta il ricordo di quel passo sapiente, di quella "pelata" che è sempre al centro dell'azione, di quei lanci precisi, di quel senso del gioco e del tempo che ne hanno fatto un calciatore unico nel suo genere.
Come allenatore non ha avuto altrettanto successo, né in Spagna, né tantomeno in Italia, ma certo la sua carriera di calciatore lo ha adeguatamente ricompensato.
Un campione, ma soprattutto un uomo, col suo carattere non poteva chiedere di meglio.
Trionfi a parte, il suo orgoglio è stato appagato anche dal modo con cui sono arrivati certi successi: una Coppa Campioni vinta contro il Real Madrid, il rivale storico, un'altra contro il Benfica in una personalissima rivincita contro quella squadra che gli aveva impedito di salire sul trono europeo già col Barcellona tre anni prima.
Ma soprattutto quella Coppa Europa conquistata a Chamartin, obbligando il pubblico madrileno a dedicare a lui, a "el gallego", un'icona "barcelonista" un trionfo ed ovazione indimenticabile.
Uno dei "dies" migliori di sempre. Semplicemente Luisito.
 


 

Rocco, Herrera e quel magico maggio 1963

Cinque giorni tra il 22 e il 26 maggio 1963. Cinque giorni che hanno cambiato il calcio milanese, italiano e mondiale con la vittoria che ha dato il via all'epopea europea del Milan e il primo scudetto della Grande Inter che da lì comincerà il suo grandissimo ciclo. Artefici di tutto questo due grandissimi allenatori e personaggi, Nereo Rocco ed Helenio Herrera, accomunati dopo 50 anni da una mostra a Palazzo Reale di Milano che ricorda fatti e propone interessantissimi ed inediti documenti multimediali e memorabilia. Da visitare dopo avere letto "Quelli che… Milan Inter ’63 - La leggenda del Mago e del Paròn", il libro di Gigi Garanzini nato insieme alla mostra e che racconta la storia sportiva e umana di due personaggi irripetibili.
Artefice della doppia operazione Gigi Garanzini, noto giornalista sportivo che da tempo (sua una simile operazione su Nereo Rocco lo scorso anno, in occasione del centenario della nascita del tecnico triestino) si sta proponendo come fondamentale divulgatore di storia e storie del calcio che, altrimenti, andrebbero sfumando. Con lui, il Comune di Milano che ha promosso la mostra insieme all'editore Skira, che ha pubblicato il volume. A sostenere il tutto con oggetti, documenti, materiali d'archivio i due club legati a doppio filo a Rocco ed Herrera, vale a dire Milan e Inter: e soprattutto la Rai, che ha condiviso i preziosissimi materiali delle sue Teche, dai quali sono tratti i filmati che accompagnano il percorso espositivo, e da Gazzetta dello Sport, anch’essa coinvolta con il suo archivio.

Una storia leggendaria, quella di Rocco ed Herrera: la rivalità, la carriera e l’amicizia di due personaggi filtrata attraverso un percorso di immagini, ricordi e documenti che racconta anche la Milano di quegli anni, che stava trasformandosi nella città di riferimento in Europa, non solo per lo sport, ma anche per la cultura, lo spettacolo, il design, la moda, le sue grandi aziende. Da quei cinque giorni del 1963 al 1969 si snoda una stagione irripetibile: i due allenatori faranno di Milano la capitale europea e mondiale del calcio, alternandosi nella conquista di trofei nazionali, europei e mondiali. Eppure i due personaggi non potrebbero essere più diversi: questa contrapposizione diventa il tema centrale della mostra, che attraverso centinaia di fotografie, numerosi e rari filmati, installazioni, oggetti di culto appartenuti ai due allenatori disegna un ritratto veritiero e umanissimo di due personaggi che hanno fatto la storia del calcio e in parte della Milano del 1963. La mostra milanese si apre proprio sul tema della rivalità iniziale: il visitatore potrà scegliere infatti un ingresso nerazzurro o uno rossonero, che naturalmente poi confluiranno in spazi comuni. La prima sezione, a cura di John Foot (professore inglese di Storia moderna italiana, e profondo conoscitore della Milano di quegli anni), è dedicata alla Milano del 1963, con fotografie e filmati di altri celebri rivali: personaggi come Celentano e Jannacci, Walter Chiari e Gino Bramieri, Maria Callas e Renata Tebaldi, aziende come Motta e Alemagna: una panoramica del meglio della città dell’epoca. E poi, in una rassegna che raccoglie circa cento foto d’autore (scelte dallo storico della fotografia Cesare Colombo) la vita sociale della città, con gli immigrati, le fabbriche, la motorizzazione, i nuovi consumi, fino al cinema e ai protagonisti della vita culturale.

Ma sono loro, Rocco ed Herrera, i protagonisti, il centro. Con un omaggio speciale al terzo incomodo di entrambi, Gianni Brera, massimo cantore del calcio a tutto tondo. E ancora maglie, scarpe, ricordi personali, la famosa lavagna tattica di Herrera, un quadro che il grande De Chirico aveva regalato a Rocco per consolarlo di una sconfitta. Seguono poi filmati e interviste, che ripercorrono storia e personalità dei due protagonisti. Viene quindi ricostruita l’atmosfera degli spogliatoi, compreso lo scorrere dell’acqua e il profumo di olio canforato, con alcune sorprese per i visitatori negli armadietti che si aprono e mostrano filmati divertenti, spesso inediti. Segue la sala dei Trionfi, con tutte le coppe vinte da Herrera e Rocco e sullo sfondo una parete rosa con le pagine storiche della Gazzetta dello Sport. Ancora fotografie e filmati di interviste, di allenamenti, con i due tecnici nella loro quotidianità, tra panchina, dialoghi con i giocatori e vita in campo, con gli indimenticabili spezzoni delle grandi finali europee e mondiali vinte dai due personaggi.  Sfilano le immagini di grandi campioni come Mazzola, Picchi, Suarez, Corso, Altafini, Rivera, Trapattoni. Un grande, diretto tributo alla memoria, al calcio, soprattutto a due uomini che mezzo secolo non ha coperto di polvere: interisti, milanisti e tutti quelli che tengono davvero a un un pallone - compresi chi non li ha visti all'opera - lasciano sempre un posto speciale al Mago e al Paròn.

Gianni Brera scritto da Massimo Raffaeli

Com’è che Brera è diventato Brera nel senso comune degli appassionati di calcio? Certamente per alcune sue punte polemiche che nei primi anni sessanta già tralignavano dalla carta stampata alla televisione con la comparsa di un epiteto, “abatino”, che egli aveva affibbiato, in un primo momento, e in accezione positiva, all’olimpionico duecentometrista Livio Berruti e ad Antonio Valentìn Angelillo, poi ad altri calciatori che vedeva con sgomento annaspare in ciò che pure definiva il “mare magno” del centrocampo (giocatori di nitido stile ma di scarso nerbo) quali Sandro Mazzola, Giacomo Bulgarelli e, ovviamente Gianni Rivera, nome proverbiale degli anni del boom, la cui eleganza corrispondeva per gli appassionati al segno di un paese redivivo, finalmente moderno, avvenente, e persino à la page: il suo, di Brera, era un empito di odio/amore che non sarebbe mai venuto meno anche se col tempo si sarebbe tramutato in una vera e propria parte in commedia e pertanto inderogabile.
Tuttavia, la polemica su Rivera e con Rivera stesso alla lunga si sarebbe rivelata la diversione necessariamente esagerata di un conflitto più antico e profondo, tale da mettere in questione l’analisi della partita di calcio e, a ben guardare, tanto il fondamento primordiale del gioco quanto lo sguardo portato su di esso. In effetti, chi leggeva Brera sulle colonne del “Giorno” o sul lenzuolo verde del “Guerin Sportivo”, fra gli anni sessanta e settanta, che consentisse o meno con l’oltranza sempre ribadita delle tesi, che fosse intrigato o respinto da una peculiarità linguistico-stilistica che non aveva eguali, comunque era costretto a convenire di trovarsi al cospetto di un critico nell’accezione letterale del termine. Se “critica” vuol dire, per etimologia, prima “distinguere” e poi “valutare” e “giudicare”, le sue pagine ne erano la più compiuta testimonianza: che poi presentassero una lingua e uno stile così riconoscibili (così originali da condannare al ridicolo di una involontaria parodia chiunque volesse imitarlo), questo lo smarcava dalla totalità dei colleghi e gli garantiva la fisionomia di un pioniere, l’unicità del fondatore di una disciplina. (Dunque la polemica con Rivera era nient’altro che il precipitato di una teoria o anche un’esca per moltiplicare la tiratura, era il momento ideologico e propagandistico di una posizione critica e teorica altrimenti fondata). Quando leggevamo Brera domandandoci invano il perché della sua unicità (intrigati o sviati dalla celebre massima di “Gadda spiegato al popolo” con cui volle liquidarlo un grande semiologo e massimo scrittore di intrattenimento, in Italia) non coglievamo il fatto che non esistevano ancora, da noi, dei critici di calcio che tali potessero chiamarsi. C’erano degli intenditori (per esempio Giglio Panza, Emilio Violanti, Renato Morino, Maurizio Barendson), degli ex sportivi riconvertiti al giornalismo (prima Vittorio Pozzo su “La Stampa”, poi Annibale Frossi sul “Corriere della Sera”), c’erano degli analisti in via di formazione (per esempio gli allora giovanissimi Gian Paolo Ormezzano, Giorgio Tosatti, Gianfranco Civolani), c’erano degli esteti come Carlo Bergoglio detto Carlin o degli ereditieri del dannunziano Bruno Roghi come Vladimiro Caminiti, c’erano addirittura degli storici (nientemeno Antonio Ghirelli, la cui prima edizione della Storia del calcio in Italia esce da Einaudi nel ’54) o degli scrittori chiamati a occuparsi di calcio a tempo pieno come Giovanni Arpino o, saltuariamente, come Mario Soldati, Luciano Bianciardi, Manlio Cancogni, Salvatore Bruno e Oreste del Buono. Ma qualcuno che sapesse recensire e valutare la partita di calcio come usavano, per altra via, i critici militanti della letteratura ancora in Italia non si era presentato. Nel senso comune, precisatosi soltanto nel lungo periodo, Brera è infine questo, un critico militante e insieme un teorico del gioco. Egli è il referente e complice ma anche il beneficiario della couche di critici sportivi che si vengono formando sulle pagine del “Giorno” allora dirette da Pilade del Buono: per stare ai fuoriclasse, Mario Fossati per il ciclismo, Gianni Clerici per il tennis, Giulio Signori per la boxe, senza ignorare le seconde linee calcistiche a nome Mino Mulinacci, Gian Maria Gazzaniga, Gian Mario Maletto, Beppe Maseri, Piero Dardanello e Mario Pennacchia che rimane, con la grande impresa di Il calcio in Italia (1998) forse il massimo cronografo-annalista di questo sport.

Su come lavorava Brera e su Brera allo stadio esiste una aneddotica ricchissima: primi rilievi stesi in tribuna stampa e prime “seriazioni statistiche”, come le chiamava, affidate al taccuino (uno per ogni gara, e pare ne siano residuati a centinaia), poi la corsa a casa o in albergo per la stesura dell’articolo con relative pagelle, di seguito la dettatura a ritmi implacabili ma godendo del privilegio (un privilegio forse unico nella storia del giornalismo italiano) di scegliere anche titolo, occhiello e sommario. (Per i libri teorici e divulgativi, o insomma per le pubblicazioni più impegnative, utilizzava i periodi di vacanza ma il ritmo produttivo rimaneva febbrile: del resto la sua intera produzione scritta assomiglia al cosmo copernicano, dove il centro è dappertutto e i confini da nessuna parte. Ciò complicherà il lavoro dei filologi a venire e però favorisce paradossalmente i prelievi più casuali, ad apertura di pagina, dalla sua sterminata produzione). Ma al di là della procedura, in che cosa consiste il suo metodo e quali ne sono i punti di riferimento? La partita, cioè il singolo incontro osservato e recensito, è il punctum cui si arriva per cerchi concentrici. Il cerchio esterno coincide con la storia patria e il nesso di storia-geografia che divide l’Italia con linea del Po. Nel cerchio ulteriore (che discrimina l’Italia del burro portato da Alboino dall’Italia dell’olio o anche l’Italia dei venti freddi e continentali dall’Italia dello scirocco e dei venti africani) sono già evidenti alcuni suoi stereotipi fondamentali: per ragioni di clima e di etnos il calcio è un fenomeno elettivamente cisalpino o padano e invece inadatto al clima mediterraneo; i grandi campioni (come testimoniano gli indici dell’atletica leggera, la disciplina di base da lui prediletta agli esordi) non possono che prosperare o latitare in relazione agli indici climatici ed etnico-storici. Da tali convinzioni (dove si mescolano tanto l’amore per la Lombardia che gli detta alcune tra le sue pagine più belle, specie di storia enogastronomica, quanto la apologia della cosiddetta Padania le cui venature xenofobe saranno purtroppo sfruttate da alcuni suoi postumi zelatori in camicia verde), egli viene deducendo una serie di antefatti decisivi: la natura tarda e composita della unificazione italiana; la concomitanza di zone climatiche diametrali; una pratica del gioco a lungo riservata alle fasce di media e piccola borghesia con l’esclusione del proletariato, specie meridionale; il persistere, nel movimento calcistico, dell’ipoteca coloniale (a partire dagli inglesi), l’assenza di una cultura specifica e la conseguente latitanza di una vera e propria scuola nazionale. Dalla progressiva consapevolezza di simili manques, dallo stato di miseria in cui nasce ed evolve in Italia il gioco del calcio, Brera deduce uno sguardo e mette a punto un metodo critico che, stante la natura composita e persino coacervica del fenomeno, non può che avvalersi di una scrittura sperimentale, mescidata e reinventata a oltranza.

Nel cerchio minore e oramai in prossimità del punctum, si delineano altre e allarmanti evidenze: in Italia, paese giovane e povero, poverissimo di atleti, fra quei pochi eccellono gli scattisti (nel calcio, attaccanti e difensori) mentre mancano i fondisti, vale a dire i centrocampisti che o sono rozzi e negati alla costruzione del gioco o sono splendidi stilisti e però renitenti alla corsa e ai recuperi, proprio come l’abatino Rivera. Brera non ha potuto assistervi ma l’albo d’oro gli dice che due Mondiali sono stati vinti dagli azzurri di Pozzo, nel ’34 e nel ’38, con la squadra disposta a W (o Metodo) e che viceversa, con la squadra disposta a WM (o Sistema, all’inglese) invalso nel secondo dopoguerra, il Grande Torino in maglia azzurra ha potuto essere umiliato dai britannici a casa sua e per 4 a O. Non è un caso che da giovane direttore della “Gazzetta”, pure sospettoso di qualunque nazionalismo, Brera metta a punto il suo metodo nel periodo di maggiore decadenza della nazionale, eliminata ai mondiali brasiliani del ’50 come a quelli svizzeri del ’54 e addirittura esclusa, per non essersi qualificata, da Stoccolma 1958. È qui, per usare il titolo di un grande storiografo, che Brera “inventa” la tradizione calcistica italiana senza la quale non sussisterebbe la sua stessa produzione di critico. È possibile darne il sommario ricorrendo al testo più compiuto della sua bibliografia tecnica, la Storia critica del calcio italiano (1975 e 1978), un’opera a tesi, dichiaratamente militante che, per testimonianza dell’autore, avrebbe dovuto brerianamente intitolarsi Storia critica della pedata italica. Lo sguardo non è equanime né potrebbe esserlo, visto che il decorso corrisponde a una trafila di momenti topici che tutti preludono o contrastano l’avvento del cosiddetto gioco all’italiana, il modulo sintetizzabile con la sua antonomasia di “catenaccio”. Qui, va subito aggiunto, il gesto critico descrittivo si traduce costantemente in rilievi chiaramente prescrittivi: ciò vuol dire che la critica, per Brera, non può mai prodursi senza l’avallo di una poetica.

Il calcio all’italiana per Brera, a partire dai primi anni cinquanta, si fonda su alcuni assiomi storicamente testati: a) la eversione del WM, troppo atleticamente dispendioso nonché tatticamente ingenuo, con il ritorno al Metodo degli anni trenta, cioè al doppio terzino d’area (uno stopper e un altro difensore “libero da impegni di marcatura” o più semplicemente “libero”, suo neologismo presto adottato a livello internazionale: costui è l’uomo che impedisce agli attaccanti avversari di andare immediatamente a rete una volta superato il rispettivo marcatore; b) il mantenimento della equidistanza fra i reparti della squadra, mai derogabile anche nelle situazioni di svantaggio (laddove Brera arriva a parlare di apparente “difesa della sconfitta”), che induce gli avversari a squilibrarsi e quindi a esporsi a letali rovesciamenti di fronte; c) il sillogismo deducibile da a) e b): difesa chiusa e contropiede, lo schema universale che se da un lato non va confuso con le barricate o le volgari ammucchiate dall’altro permette sia di saltare il centrocampo (specie alle squadre italiane, deficitarie in quella zona) sia di esaltare la agilità delle punte. Come dirà tante volte, questa è la risorsa di Davide contro Golia, la trovata di Bertoldo che non riesce a scegliere l’albero cui impiccarsi o, in una parola sola, questa è la metafisica dei poveri che sanno di esserlo. Neanche a dirlo, in tribuna stampa e fra il popolo grande dei lettori, molti nuovi ricchi se ne adontano inneggiando al “bel gioco” o comunque a un gioco alla pari con le scuole calcistiche più longeve e dal vivaio più ricco di atleti: Brera li iscrive tutti quanti d’ufficio alla scuola “napoletana” il cui esponente più pregiato è il suo antipode umano e professionale di sempre, Gino Palumbo, peraltro suo successore e ostinato eversore in “Gazzetta” (dove l’unico breriano resistente sarà per molto tempo Gualtiero Zanetti). Brera vagheggia un modulo che sappia contaminare, in Italia, il vigore troppo monotono degli anglosassoni e la squisitezza tecnica ciecamente prodigata dai latini sudamericani. Inventando la propria tradizione, sa che il catenaccio non è un’esclusiva italiana (perché già negli anni quaranta l’austriaco Rappan praticava il Verrou o Riegel al Grasshopper di Zurigo) ma che è tutta italiana l’attitudine a economizzare le energie (la caisse d’epargne di cui gli dirà, seccatissimo, un collega francese ai Mondiali di Messico ’70) nonché a disporsi in campo per attirare la squadra avversaria e colpirla di rimessa. Nella Storia critica la genealogia del contropiede è un fatto di lungo periodo e muove addirittura dalla Pro Vercelli anni dieci, passa per la nazionale di Pozzo (accusato comunque di praticismo e scarsa consapevolezza tattica, in pratica di razzolare bene ma, da succubo dei maestri inglesi, di predicare male), continua con il Bologna anni trenta di Arpad Weisz, vincitore sul Chelsea al Torneo dell’Esposizione di Parigi nel 1937 e arriva finalmente al 1960, annus mirabilis del catenaccio, quando la Figc affida a Gipo Viani e Nereo Rocco gli azzurri della nazionale Olimpica. Se Viani è un antesignano (“Vianema” si chiamava il criptocatenaccio da lui praticato in provincia), Nereo Rocco, tecnico della Triestina e poi del Padova anni cinquanta, è il suo primo eroe eponimo, sinonimo di saggezza, di umanità e di genio perfettamente dissimulato nella bonomia: Rocco è l’anti-italiano per eccellenza, un nemico giurato della verbosità e della megalomania. Nella buca di Prato della Valle, dove si battono e contrattaccano con vigore belluino i ragazzi che Rocco chiama i Manzi (difensori leggendari quali Blason, Azzini e Scagnellato, una mezzala come Humberto Rosa, punte del valore di Sergio Brighenti e Kurt Hamrin), Brera vede per la prima volta il corrispettivo si potrebbe dire dialettale di due grandi nazionali che intanto stanno praticando il catenaccio senza che il pubblico e la critica sappiano o vogliano avvedersene, l’Uruguay (che ha modo di ammirare contro gli ungheresi di Puskas ai Mondiali svizzeri del ’54) e il Brasile di Stoccolma ’58, la squadra di Didì-Vavà-Pelé convertita al doppio terzino d’area dopo storiche batoste e annose polemiche grazie alla saggezza di un tecnico di origine italiana, Vicente Feola, e su indiretto suggerimento di un ebreo ungherese, Béla Guttman, transfuga dal nostro campionato. Giusto in Italia la scuola “difensivista” risulta così minoritaria che la sua tarda affermazione, a cavallo degli anni sessanta, avviene ufficiosamente, quasi si trattasse di dover ammettere una pratica immonda: Brera giustifica la cautela remissiva del modulo citando una massima prudente e disarmante di Francesco Guicciardini (“che se tu nelli italiani riponi fidanza, sempre aurai delusione”) che oggi sappiamo essere invece solamente farina del suo sacco. Rocco, passato al Milan, è il braccio armato e vincente della critica breriana mentre non lo è affatto Helenio Herrera che Brera (suo ispirato biografo) valuta alla pari di un sublime cialtrone, di un abile preparatore e di un geniale opportunista, capace di passare in poco d’ora dal WM ultrapodistico dei suoi esordi al catenaccio ortodosso che munisce la difesa della Grande Inter anni sessanta. Sono gli anni in cui Brera moltiplica i lettori e però continua a dare l’impressione di parlare nel deserto: quando il pupillo di Rocco (l’abatino che ha accettato la parte in commedia) gli muove guerra sui giornali, per nero contrappasso l’Italia viene eliminata ai mondiali inglesi del ’66 dai quidam della Corea. Tale è lo scandalo e il suo personale sconforto che per un momento pensa di congedarsi dalla critica calcistica, convinto non ne valga più la pena. Non immagina che la immediata chiusura delle frontiere ai calciatori stranieri e la crescita corrispettiva del vivaio italiano produrranno un ciclo irripetibile e nel segno, se così si può dire, della più squisita breritudine: prima il Cagliari di Manlio Scopigno e di Luigi Riva (l’altro eroe eponimo, forse il solo eroe da lui celebrato fra i “pedatori”), poi la Juventus italianissima dell’allievo maggiore di Rocco, Giovanni Trapattoni (un tecnico cresciuto a una scuola oramai conclamata, la stessa di Osvaldo Bagnoli, Dino Zoff, Rino Marchesi, Ottavio Bianchi e, a ben vedere, di Marcello Lippi e di Fabio Capello). Quando la nazionale italiana vince a Madrid il Mondiale del 1982, Gianni Brera è di fatto ancora un critico militante ma da tempo viene percepito come il Maestro tout court, per giunta associato a “la Repubblica” che è l’organo ufficiale dell’intelligenza come dello snobismo all’italiana, una forgia implacabile del senso comune. Fatto sta che i lettori si moltiplicano e che cresce intorno a lui una nuova generazione di critici di calcio che tutti riconoscono, ed orgogliosamente, il proprio debito con lui (e qui bastino i nomi essenziali di Gianni Mura, di Mario Sconcerti e, già di una generazione ulteriore, di Matteo Marani, Massimiliano Castellani, Darwin Pastorin, quest’ultimo un breriano anti-breriano, per tacere del grande Beppe Viola, troppo presto perduto). A Madrid è come se Brera avesse vinto, e una volta per sempre. L’articolo che firma su “la Repubblica” all’indomani di quell’11 luglio ha la forma di un peana ma in realtà è un testamento e un virtuale passo d’addio. Egli non può che specchiarsi nella vittoria impensabile, non può che riconoscervi l’impronta del calcio all’italiana, l’epica del catenaccio o, come gli accade di chiamarlo in un momento d’enfasi, del “santo catenaccio” addirittura. Si concede persino una riserva sottile nei confronti del tecnico Enzo Bearzot quando scrive che, alla maniera di Vittorio Pozzo, costui ha predicato male e razzolato bene, attenendosi ufficiosamente al calcio all’italiana che a più riprese, ufficialmente, aveva invece condannato. Così scrive:

"Io triumphe, avventurata Italia! Il terzo titolo di campione ti pone accanto al magno Brasile nella gerarchia del calcio mondiale. Hai strabiliato solo coloro che non te ne ritenevano degna, non certo coloro che sanno strologare a tempo e luogo sul mistero agonistico del calcio. La tua vittoria è limpida, pulita: non è neppure venuta dal caso, bensì da un’applicazione soltanto logica (a posteriori!) del modulo che ti è proprio, e in tutto il mondo viene chiamato all’italiana. […] Ora tu, cara vecchia smandrippata Italia, hai sfruttato appieno le virtù della tua indole, dunque della tua cultura specifica. Non si vince un mondiale senza storia: non si arriva senza nerbo né valore a una finale mondiale. […] Al diavolo i malevoli i cacaminuzzoli gli invidiosi gli incompetenti i pirla i fessi ai quali non è piaciuta la vittoria italiana. Io triumphe, avventurata Italia. Dovessi per un mese cantare le tue caste glorie, ebbene, lo farei con grato entusiasmo. E grazie a voi, beneamati brocchetti del mio tifo, beneamati fratelli miei in mutande."

Quel trionfo azzurro sembra davvero culminare, se non proprio concludere, la parabola di Gianni Brera critico del calcio. È vero che gli restano dieci anni da vivere e da scrivere ma è vera altrettanto, almeno per chi continua a leggerlo, la sensazione di una sua stanchezza, di una ripetitività accademica o forse, più probabilmente, di un suo progressivo disamore. Tutto nel frattempo sta cambiando vertiginosamente intorno a lui, non solo il calcio ma anche il calcio, un gioco che non è più un gioco e nemmeno uno sport, semmai uno spettacolo a esclusiva dominante mediatica. D’altronde non potranno mai andargli a genio (a lui geloso custode della italianità calcistica) il cosmopolitismo di squadre in cui gli stranieri di nuovo sovrabbondano, il disinteresse dei club e del pubblico per la nazionale (quando la vittoria di Berlino 2006, a lui postuma, sembra la classica eccezione che conferma la regola) così come non può non detestare la vigente riforma tecnico-tattica (ai suoi occhi certamente una controriforma) che si ispira al “calcio totale” degli olandesi anni settanta, un modulo che proprio lui ha bollato, se non irriso, chiamandolo “panturbiglione” (parodia del tourbillon), un combinato disposto di frenesia atletica e offensivismo tattico che prepara la deminutio capitis della sua stessa effigie di critico e di teorico del calcio.
All’eresia vincente di Rinus Michels e di Arrigo Sacchi continuerà a guardare con sospetto e ironia nella vana attesa di una resipiscenza: ma Brera resta un modernista radicale (si potrebbe dire un teorico del realismo critico) nel mondo che si avvia, anche nel calcio, alla postmodernità. In particolare a Sacchi non perdona di essere l’antipode di Nereo Rocco e infatti non sarà disposto a passargli né l’aura del “persuaso” (così un poeta-filosofo goriziano definiva un secolo fa i profeti che tali si autoproclamavano) né la parlantina irrefrenabile che lo associa parimenti ai conterranei Vincenzo Muccioli e Benito Mussolini. Il calcio terminale di Brera è in tutto e per tutto un calcio da nuovi ricchi e per nuovi ricchi, oggi così esoso, formattato, così ubiquitario, da non prevedere e anzi da abolire il concetto di “critica”, un calcio peraltro comunemente raccontato (escluse le ovvie e reverende eccezioni) in un gergo dogmatico e fondamentalista, in una Neo-lingua il cui lessico è davvero ripugnante: quando Gianni Mura afferma di dover sopravvivere fra i senzabrera è probabile si riferisca a tutto questo, pari al gruppo di fedelissimi (e fra gli altri il biografo breriano Andrea Maietti e il filologo Alberto Brambilla) che da anni redigono in suo onore i “Quaderni dell’Arcimatto”. Quanto infine a Gianni Brera e al vetusto contropiede, viene in mente un autore che lui amava ancora meno di Carlo Emilio Gadda, cioè Alessandro Manzoni, e in particolare un suo personaggio, l’ineffabile Don Ferrante, colui che cambiava le parole non sapendo o non volendo cambiare le cose: sono gli ignari discepoli di Don Ferrante che noi dobbiamo ringraziare se adesso, in Italia, il contropiede si chiama “ripartenza”.

La partita più bella di tutti i tempi secondo Gianni Brera

Era il 30 giugno del 1954, sono passati sessant’anni. Le due squadre scesero in campo allo stadio Olympique de la Pontaise di Losanna poco prima delle 6 di pomeriggio.
Da una parte l’Ungheria, l’Aranycsapat, cioè la “Squadra d’oro”, una delle più grandi compagini di tutti i tempi, costituita sull’ossatura della Honved di Budapest, la squadra dell’esercito: un pugno di campioni (Bozsik, Czibor, Kocsis…) stretti intorno a un autentico fuoriclasse, Ferenc Puskas, che però non giocò per infortunio la fatidica partita.
L’Ungheria giocava una sorta di calcio totale ante litteram, modificando il Sistema allora in voga in una sorta di modulo tattico 3-2-3-2 che prevedeva l’avanzamento delle ali laterali per creare costantemente superiorità numerica. Formule tattiche a parte, è uno dei primi tentativi in cui i giocatori si muovono come un corpo unico, privilegiando il fraseggio ai lanci lunghi, e un gioco compatto in cui tutti fanno praticamente tutto. Nell’Ungheria di Puskas & co. vi sono tracce in seguito elaborate dall’Olanda di Cruijff, il Milan di Sacchi o il Barcellona di Guardiola.
Dopo aver vinto la medaglia d’oro ai Giochi olimpici del 1952, il momento di massimo splendore dell’Aranycsapat fu raggiunto il 25 novembre del 1953 a Wembley, quando sconfisse la nazionale inglese per 6-3 davanti a centomila spettatori. Anche questa partita è integralmente su Youtube: ad impressionare non è solo la bellezza estetica del calcio danubiano, o il fatto che la partita sarebbe tranquillamente potuta finire 14-3, ma una sorta di scissione temporale. Gli ungheresi sembrano davvero piombare dal futuro e inventare metro dopo metro, passaggio dopo passaggio, un calcio mai visto prima.
Nel 1956, due anni dopo i Mondiali elvetici, quella splendida squadra sarebbe stata travolta dall’invasione sovietica. Chi poté riparò all’estero. Le stelle si accasarono quasi tutte in Spagna, dividendosi tra Barcellona e Real Madrid. Ironia della sorte, il colonnello Puskas (oltre mille gol in carriera) avrebbe affiancato Alfredo Di Stefano nell’attacco atomico del Real tanto amato da Francisco Franco.
Di contro, quel pomeriggio, c’erano gli splendidi uruguagi campioni del mondo in carica, gli eroi del Maracanazo, cioè il più grande shock collettivo che la storia dello sport ricordi. Nel 1950 avevano vinto i Mondiali contro il Brasile al Maracanà di Rio davanti a duecentomila spettatori, una capienza mai raggiunta da nessuno stadio per una partita di calcio, né prima né in seguito.
Se c’era stata fino ad allora una scuola calcistica in grado di fondere fantasia ed estrema concretezza, non-gioco e improvvise fiammate,  innata sapienza tattica e contenimento dello sforzo, questa era proprio quella uruguagia. I brasiliani – come notò lo stesso Brera – avevano patito innanzitutto la propria inferiorità tattica, e per questo persero 2-1. Ma il Maracanazo (su cui ha scritto pagine rivelatrici Alex Bellos in Futebol. Lo stile di vita brasiliano) non nasceva all’improvviso. Lo stile platense era maturato già negli anni venti e trenta, quando un piccolo paese di poco più di due milioni di abitanti aveva vinto due olimpiadi di fila e il primo mondiale organizzato in casa, sconfiggendo in finale gli argentini. Fulcro della squadra nella disfida di Losanna era un altro campione assoluto: Juan Alberto Schiaffino, detto il Pepe. Colui che insieme a Ghiggia aveva ammutolito i duecentomila del Maracanà, e che proprio dopo la Coppa del ’54 sarebbe approdato al Milan. Da oriundo (era nipote di un macellaio genovese) avrebbe giocato anche 4 partite in maglia azzurra.
Ciò che sorprende rivedendo Ungheria-Uruguay del 1954 è l’intensità di gioco. Soprattutto da parte ungherese, il ritmo è molto sostenuto, non tanto dissimile da una partita dei giorni nostri. L’Ungheria era arrivata all’incontro con i campioni del mondo in carica dopo aver battuto 9-0 la Corea del Sud, 8-3 la Germania Ovest, 4-2 il Brasile. L’Uruguay invece aveva perso per infortunio nei quarti di finale (4-2 all’Inghilterra) ben tre giocatori, tra cui il capitano Varela.
Per chi è avvezzo a leggere gli schemi del calcio, è evidente come ungheresi e uruguagi disegnino due distinte partiture. Sostanzialmente i primi attaccano e cercano di aprire nuovi spazi (cosa che facevano sempre, asfaltando ogni opposizione), mentre i secondi bloccano il giocano avversario e provano a ripartire in velocità.
All’inizio del secondo tempo l’Ungheria è già sul 2-0, risultato che stroncherebbe chiunque. Eppure succede qualcosa di strano: gli uruguagi, per usare la criptica espressione breriana, “difendono la sconfitta”. Detto in altri termini: non si buttano forsennatamente all’attacco, non mutano i propri schemi e il proprio gioco. Continuano ad aspettare le folate avversarie, benché il tempo stringa… ed è la scelta vincente. La partita sembra cambiare stile, e quando le maglie si allargano aumentano le tonalità platensi. I capovolgimenti si fanno improvvisi, ora si danza e si lotta alla latinoamericana. Grazie al contropiede, la Celeste riesce a pareggiare con una doppietta di Hohberg e, nei secondi finali, sfiora la clamorosa vittoria con Schiaffino.
Si va ai supplementari, e gli uruguagi – che hanno ormai capito come impallare il sistema danubiano – sfiorano nuovamente la vittoria, ma beccano un palo. Schiaffino si mangia un altro gol. La partita corre sul filo sottilissimo dell’equilibrio. Poi, complici due papere del portiere Maspoli, Kocsis segna due volte di testa portando l’Ungheria in finale.