giovedì 9 aprile 2015

La partita più bella di tutti i tempi secondo Gianni Brera

Era il 30 giugno del 1954, sono passati sessant’anni. Le due squadre scesero in campo allo stadio Olympique de la Pontaise di Losanna poco prima delle 6 di pomeriggio.
Da una parte l’Ungheria, l’Aranycsapat, cioè la “Squadra d’oro”, una delle più grandi compagini di tutti i tempi, costituita sull’ossatura della Honved di Budapest, la squadra dell’esercito: un pugno di campioni (Bozsik, Czibor, Kocsis…) stretti intorno a un autentico fuoriclasse, Ferenc Puskas, che però non giocò per infortunio la fatidica partita.
L’Ungheria giocava una sorta di calcio totale ante litteram, modificando il Sistema allora in voga in una sorta di modulo tattico 3-2-3-2 che prevedeva l’avanzamento delle ali laterali per creare costantemente superiorità numerica. Formule tattiche a parte, è uno dei primi tentativi in cui i giocatori si muovono come un corpo unico, privilegiando il fraseggio ai lanci lunghi, e un gioco compatto in cui tutti fanno praticamente tutto. Nell’Ungheria di Puskas & co. vi sono tracce in seguito elaborate dall’Olanda di Cruijff, il Milan di Sacchi o il Barcellona di Guardiola.
Dopo aver vinto la medaglia d’oro ai Giochi olimpici del 1952, il momento di massimo splendore dell’Aranycsapat fu raggiunto il 25 novembre del 1953 a Wembley, quando sconfisse la nazionale inglese per 6-3 davanti a centomila spettatori. Anche questa partita è integralmente su Youtube: ad impressionare non è solo la bellezza estetica del calcio danubiano, o il fatto che la partita sarebbe tranquillamente potuta finire 14-3, ma una sorta di scissione temporale. Gli ungheresi sembrano davvero piombare dal futuro e inventare metro dopo metro, passaggio dopo passaggio, un calcio mai visto prima.
Nel 1956, due anni dopo i Mondiali elvetici, quella splendida squadra sarebbe stata travolta dall’invasione sovietica. Chi poté riparò all’estero. Le stelle si accasarono quasi tutte in Spagna, dividendosi tra Barcellona e Real Madrid. Ironia della sorte, il colonnello Puskas (oltre mille gol in carriera) avrebbe affiancato Alfredo Di Stefano nell’attacco atomico del Real tanto amato da Francisco Franco.
Di contro, quel pomeriggio, c’erano gli splendidi uruguagi campioni del mondo in carica, gli eroi del Maracanazo, cioè il più grande shock collettivo che la storia dello sport ricordi. Nel 1950 avevano vinto i Mondiali contro il Brasile al Maracanà di Rio davanti a duecentomila spettatori, una capienza mai raggiunta da nessuno stadio per una partita di calcio, né prima né in seguito.
Se c’era stata fino ad allora una scuola calcistica in grado di fondere fantasia ed estrema concretezza, non-gioco e improvvise fiammate,  innata sapienza tattica e contenimento dello sforzo, questa era proprio quella uruguagia. I brasiliani – come notò lo stesso Brera – avevano patito innanzitutto la propria inferiorità tattica, e per questo persero 2-1. Ma il Maracanazo (su cui ha scritto pagine rivelatrici Alex Bellos in Futebol. Lo stile di vita brasiliano) non nasceva all’improvviso. Lo stile platense era maturato già negli anni venti e trenta, quando un piccolo paese di poco più di due milioni di abitanti aveva vinto due olimpiadi di fila e il primo mondiale organizzato in casa, sconfiggendo in finale gli argentini. Fulcro della squadra nella disfida di Losanna era un altro campione assoluto: Juan Alberto Schiaffino, detto il Pepe. Colui che insieme a Ghiggia aveva ammutolito i duecentomila del Maracanà, e che proprio dopo la Coppa del ’54 sarebbe approdato al Milan. Da oriundo (era nipote di un macellaio genovese) avrebbe giocato anche 4 partite in maglia azzurra.
Ciò che sorprende rivedendo Ungheria-Uruguay del 1954 è l’intensità di gioco. Soprattutto da parte ungherese, il ritmo è molto sostenuto, non tanto dissimile da una partita dei giorni nostri. L’Ungheria era arrivata all’incontro con i campioni del mondo in carica dopo aver battuto 9-0 la Corea del Sud, 8-3 la Germania Ovest, 4-2 il Brasile. L’Uruguay invece aveva perso per infortunio nei quarti di finale (4-2 all’Inghilterra) ben tre giocatori, tra cui il capitano Varela.
Per chi è avvezzo a leggere gli schemi del calcio, è evidente come ungheresi e uruguagi disegnino due distinte partiture. Sostanzialmente i primi attaccano e cercano di aprire nuovi spazi (cosa che facevano sempre, asfaltando ogni opposizione), mentre i secondi bloccano il giocano avversario e provano a ripartire in velocità.
All’inizio del secondo tempo l’Ungheria è già sul 2-0, risultato che stroncherebbe chiunque. Eppure succede qualcosa di strano: gli uruguagi, per usare la criptica espressione breriana, “difendono la sconfitta”. Detto in altri termini: non si buttano forsennatamente all’attacco, non mutano i propri schemi e il proprio gioco. Continuano ad aspettare le folate avversarie, benché il tempo stringa… ed è la scelta vincente. La partita sembra cambiare stile, e quando le maglie si allargano aumentano le tonalità platensi. I capovolgimenti si fanno improvvisi, ora si danza e si lotta alla latinoamericana. Grazie al contropiede, la Celeste riesce a pareggiare con una doppietta di Hohberg e, nei secondi finali, sfiora la clamorosa vittoria con Schiaffino.
Si va ai supplementari, e gli uruguagi – che hanno ormai capito come impallare il sistema danubiano – sfiorano nuovamente la vittoria, ma beccano un palo. Schiaffino si mangia un altro gol. La partita corre sul filo sottilissimo dell’equilibrio. Poi, complici due papere del portiere Maspoli, Kocsis segna due volte di testa portando l’Ungheria in finale.

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